La battaglia dell'acqua. Sel, Movimento 5 Stelle e il Forum per l'Acqua accusano il governo di voler affossare il referendum sull'acqua come bene pubblico

di Massimo Lorito 17/03/2016 POLITICA
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La volontà popolare in Italia può essere un concetto decisamente labile e purtroppo poco rispettato proprio a partire delle istituzioni. Nel 2011 quasi 27 milioni di italiani si espressero chiaramente affinchè l’acqua rimanesse un bene totalmente pubblico con un referendum che nasceva sull’onda di un’imponente mobilitazione da parte di associazioni e semplici cittadini. Vediamo cosa sta accadendo in Parlamento che ha messo in agitazione i tanti sostenitori del bene pubblico dell’acqua. 

 Nel Marzo di tre anni è stata depositata in parlamento una proposta di legge che recitava “tutela, governo e gestione pubblica delle acque e disposizioni per la ripubblicizzazione del servizio idrico”. La proposta è l’esito del referendum ossia il tentativo di apportare una nuova regolamentazione là dove era sorto un vuoto legislativo. L'esame della riforma è iniziato nel giugno del 2015 in Commissione Ambiente alla Camera e ora si stanno presentando gli emendamenti. Ed è qui che è scoppiato il caso. Secondo Sel e Movimento 5 Stelle dal Pd sarebbe partito un deciso tentativo di affossare quel risultato referendario attraverso l’inserimento di un emendamento, presentato dal deputato democratico Enrico Borghi che se approvato cancellerebbe di un colpo l’intera gestione pubblica dei servizi idrici. Il Partito democratico e l’onorevole Borghi rispediscono al mittente le accuse bollandole come pura fantasia, ma qualcosa effettivamente non quadra. Vediamo.

Il progetto di legge era stato presentato per iniziativa proprio dei tre gruppi parlamentari, ossia Pd, 5 Stelle e Sinistra ecologia e libertà che hanno lavorato in questi mesi al testo da licenziare, fino a questi ultimi giorni in cui sarebbe spuntato fuori la modifica che messo in allarme i sostenitori dell’acqua come bene pubblico. La proposta in discussione da quasi un anno si compone di 12 articoli che, dopo aver definito l'acqua come un bene naturale e un diritto umano universale, passa ad analizzare le forme di gestione da parte degli enti locali e le coperture finanziarie. L'acqua viene definita un bene comune ed in quanto tale non è mercificabile e deve essere utilizzata secondo i criteri di solidarietà. Nel prosieguo degli articoli si stabilisce che “è sottratto ai principi di concorrenza poichè persegue finalità sociali e ambientali di pubblico interesse”.

Alle regioni è affidato il compito di redigere il piano di tutela delle acque e la facoltà di normare la scelta del modello gestionale. Mentre gli enti locali svolgono le funzioni di programmazione, di organizzazione del servizio idrico integrato, di scelta della forma di gestione e la modulazione delle tariffe all'utenza. All'articolo 6 è previsto che la gestione e l'erogazione del servizio non possono essere separate e possono essere affidate solo ad enti di natura pubblica.
All’articolo 4, “Principi relativi alla gestione del servizio idrico” - nella versione originale recita: comma 1. Tenuto conto dell’esigenza di tutelare il pubblico interesse allo svolgimento di un servizio essenziale in situazione di monopolio naturale ai sensi dell’articolo 43 della Costituzione, il servizio idrico integrato è considerato servizio pubblico locale privo di rilevanza economica.

Comma 2. La gestione del servizio idrico integrato è sottratta al principio della libera concorrenza, è realizzata senza finalità lucrative, persegue finalità di carattere sociale e ambientale, ed è finanziata attraverso meccanismi di fiscalità generale e specifica nonché meccanismi tariffari. 

L'emendamento presentato da Borghi e dagli altri democratici modifica il primo comma del testo sostituendo il concetto di “servizio pubblico locale privo di rilevanza economica”, con quello di “servizio pubblico locale di interesse economico generale assicurato alla collettività”. Quel privo di rilevanza economica sostituito da interesse economico generale potrebbe stravolgere proprio l’essenza generale del servizio idrico come bene pubblico esente da speculazioni finanziarie o imprenditoriali. Altre sostanziali modifiche riguarderebbero l’articolo 6, l’obbligatorietà del servizio pubblico dell’acqua, con l’inserimento della dicitura che il servizio idrico è affidato «in via prioritaria» alle società interamente pubbliche. Quella “priorità” sottintenderebbe che in seconda battuta altre società, non pubbliche, potrebbero occuparsi di tale servizio. E ancora con la possibilità di cedere dal pubblico ai privati acquedotti, fognature e depuratori, ecc.

E’ evidente che la battaglia dell’acqua è decisiva per i grandi interessi economici. In generale privatizzazione non è equivalenza di migliore servizio offerto ai cittadini, ma quasi sempre di maggiori costi e spese. Nel luglio scorso Mediobanca ha redatto un rapporto in cui metteva a confronto con cifre alla mano i dati delle maggiori società utility operanti nel paese, ossia quelle aziende private o miste pubblico-private gestiscono i servizi più importanti, luce, gas, acqua, trasporti urbani e lo smaltimento dei rifiuti. Nel rapporto si legge come questo settore sia la quinta industria del paese con un fatturato di quasi 5 miliardi di euro di utili netti muovendo un giro d’affari di 30 miliardi complessivi all’anno. La fetta dell’acqua è pari al 12%, 3,6 miliardi. Ora con il principio referendario e con la legge che dovrà rispettare quel dettame le società miste che hanno gestito per conto delle amministrazioni i servizi idrici dovranno scorporare quei servizi dal proprio asset aziendale, operazione che evidentemente si sta provando a scongiurare grazie a qualche deputato compiacente.

 

La relatrice del Movimento 5 stelle, Federica Daga ha spiegato all’Espresso che "il testo della legge va in direzione ostinata e contraria rispetto a quella del governo che vorrebbe privatizzare tutto facendo gli interessi delle grandi multinazionali".

Tutto questo accade mentre da una ricerca di Telesurvey Research commissionata da Aqua Italia, l'associazione di Confindustria che riunisce i costruttori di impianti per il trattamento dell'acqua, emerge che oltre due terzi delle famiglie italiane (71,8%) beve acqua del rubinetto, e quasi una persona su due (44%) dichiara di berla "sempre o quasi sempre". Tra le ragioni per cui gli italiani preferiscono l'acqua del rubinetto alla cugina in bottiglia c'è innanzi tutto la comodità di non dover più trasportare casse di acqua dal supermercato fino a casa, motivazione addotta dal 28,6% del campione (era il 22,5% nel 2014). Aumenta anche la sensibilità verso la sicurezza, con il 20,4% degli intervistati che dice di preferire "l'acqua del sindaco" perché è sottoposta a maggiori controlli rispetto all'acqua in bottiglia (17,5% nel 2014).

 


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