Turchia, rieletto Erdogan ma la società si schiera per la laicità

Nel paese spartiacque tra Oriente e Occidente le donne si oppongono con una risata al conservatorismo

di Rosanna Pilolli 12/08/2014 ESTERI
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Dopo l’accesa campagna elettorale che per la prima volta ha visto l’elezione del presidente con il voto diretto e con l’elezione di Recep Tayyp Erdogan, che ha guidato per dieci anni il Paese ad un notevole sviluppo economico, non sembrano sopirsi le questioni sociali che maggiormente indeboliscono la complessa democrazia turca. Fra queste le reazioni alle parole del vice Ministro Bulent Arinc, braccio destro del premier, che ha riacutizzato vecchie ferite.

 Il quotidiano Hurriyet  ha riportato le frasi salienti dette, pare, durante un discorso pubblico. Riguardavano le donne, il loro comportamento in pubblico: “la donna saprà quello che è  peccaminoso e quello che non lo è. Non riderà in pubblico e non sarà seducente nel suo comportamento e proteggerà la sua castità”.

 In realtà sembra che il contesto del discorso di Arinc fosse più ampio e interessato ai comportamenti generali delle donne e degli uomini da tenere in pubblico. Ha invitato alla modestia e alla castità e all’allontanamento dalla degenerazione dei costumi. Sotto l’ombrello dell’etica religiosa. Una sottile distinzione tuttavia  ha reso  poco accettabili le parole del vice Ministro: il profilo di devozione, il concetto di peccato si è esteso ad atteggiamenti quali la risata sguaiata (il termine usato kahkaha ne indica appunto l’indecorosità)  che rientrano più semplicemente nella cattiva educazione.

 Nel clima arroventato preelettorale le parole del vice ministro hanno comunque suscitato una fortissima reazione da parte di migliaia di donne. Non solo a causa della reislamizzazione del Paese ma soprattutto per la condizione femminile tornata ad essere arretrata e soggetta al potere maschile. Le oppositrici sono donne giovani, vestite alla maniera occidentale, a capo scoperto molto simili nel costume alla ragazze italiane o spagnole. Ragazze che hanno studiato e che desiderano un giusto peso professionale. E sociale. Entusiaste delle parole del vice ministro, invece, le donne  del partito Akp del premier Erdogan.  Donne velate che indossano larghe maglie con maniche lunghe sopra gonne lunghe alla caviglia. Unica concessione i tradizionali colori accesi delle ricche tonalità cromatiche turche. Queste donne sono figlie di una borghesia religiosa e tradizionalista che si è arricchita con l’economia del governo islamico di Erdogan. Di conseguenza ne appoggiano entusiasticamente gli appelli.

La protesta delle donne che hanno “postato” sui social network i loro ritratti ridenti con la dicitura “Resistereridere” vuole ricordare che esiste  un’altra Turchia, più moderna culturalmente e al passo con l’Europa, un Paese che resiste ancora dopo la “primavera” di Gezi Park a Istambul nel 2013 e le manifestazioni degli “indignados” turchi represse duramente con arresti e morti.

La Turchia è una nazione giovane nata nel 1923 e il suo fondatore, Kemal Ataturk creandola, ruppe tutti i ponti culturali e politici che legavano quella terra all’Impero ottomano o all’influsso religioso degli arabi. Per la prima volta nella storia da uno stato islamico si passò ad uno stato laico. In questo coraggioso progetto politico si inserirono riforme che riguardavano principalmente la realtà femminile e l’istituzione familiare. Le donne cessarono di essere considerate inferiori per natura, ottennero i diritti civili, poterono abbandonare il velo. Ebbero l’ingresso al voto qualche anno dopo, nel 1932 e fu stabilita dalla legge, nel 1934,  la possibilità di una loro elezione  all’Assemblea. In quegli anni, l’Italia fascista non riconosceva alle italiane il diritto al voto, ne sanciva l’inferiorità “naturale” e le voleva mogli e madri con l’eccezione, a totale  beneficio “macho”, delle donne di piacere. Tuttavia mentre le nuove leggi facevano compiere  alla Turchia un balzo in avanti rispetto a molti paesi dell’Europa di allora, la mentalità interna al paese della Mezzaluna rimase fortemente intrisa di conservatorismo tradizionale.

    Oggi i codici vetero-patriarcali sembrano avere ripreso un nuovo slancio.  La violenza domestica è una drammatica emergenza. Dal 2009 al 2012 quasi settecento donne uccise dai mariti, dai padri, dai fratelli o dai familiari più lontani. Molti crimini domestici non vengono denunciati e nelle statistiche dovrebbero rientrare anche i tanti suicidi di quelle donne che non  hanno trovato altra via di fuga al tormento di una famiglia violenta. Il 39% ha subito violenze e i reati sessuali, dal 2008 sono aumentati del 400%. E si sa di bambine vendute a buon prezzo come spose ad uomini facoltosi e divenute madri già di quattro cinque figli prima del compimento del ventesimo anno. Il problema del femminicidio e della violenza hanno formato l’oggetto di una legge emanata nel 2012.  Un anno prima le Nazioni Unite avevano pubblicato un dossier che assegnava alla Turchia la maglia nera per la violenza sulle donne. Secondo l’opposizione, però, la legge di protezione in realtà ha continuato a non considerare la donna come persona ma soltanto parte di un assetto familiare.

Una condizione dunque che mostra le contraddizioni e i lati oscuri della Turchia accompagnando sinistramente il successo del premier Recep Tayyp Erdogan. 



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