Civil war

Un film superficiale che sembra porre domande mentre invece offre risposte facili, banali e retoriche.

di EMILIANO BAGLIO 23/04/2024 ARTE E SPETTACOLO
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Al culmine di una delle (rare) sequenze d’azione di Civil war, per creare pathos, o sottolinearlo, a seconda dei punti di vista, Alex Garland, spara a tutto volume l’hip hop dei De La Soul.

Seguono inquadrature dei superstiti condite da capelli al vento e slow motion come se piovesse; una roba che, se l’avesse fatta qualche altro regista (ad esempio Snyder) sarebbe oggetto di giustificate e facili ironie.

Ma procediamo con ordine.

Come ci avvisa gentilmente il titolo stesso, gli Stati Uniti sono dilaniati da una guerra civile.

Texas, California e Florida hanno dichiarato la secessione mentre il Presidente, al suo terzo mandato, è asserragliato a Washington.

Come siamo arrivati a tutto questo? Da quanto tempo procede la guerra? Garland non fornisce nessuna spiegazione, ci cala in media res, forse con l’intento di rendere universale la sua narrazione; nel frattempo infatti c’è stato l’Assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 quindi perché sprecarsi più di tanto?

La fotografa Lee Smith (Kirsten Dunst) ed il collega Joel (Wagner Moura) decidono di provare a raggiungere la Casa Bianca per intervistare il Presidente e a loro si uniscono l’anziano Sammy (Stephen McKinley Henderson) e la giovane Jessie (Cailee Spaeny).

La trama di Civil war è ridotta all’osso ed assomiglia più che altro ad una sorta di macabro videogioco con più livelli di difficoltà.

I personaggi poi, di fatto, non sono pervenuti.

C’è la celebre fotoreporter apparentemente insensibile agli orrori dopo averne visti tanti, l’anziano collega che non vuole mollare la presa, Joel che vive in una sorta di stato di esaltazione continua dovuto all’adrenalina e Jessie, apparentemente giovane ed ingenua che si capisce dopo pochi secondi che in realtà è quella pronta a tutto pur di affermarsi come fotografa.

Non c’è nessun approfondimento psicologico ed invero, a voler fare le pulci, a parte Sammy, gli altri non si capisce bene per chi lavorino visto che il paese è in fiamme.

Anche lo scenario è confuso, come è giusto che sia in una guerra.

Basti pensare all’incipit del film con dei soldati a guardia di un camion contenente acqua; non si sa a quale fazione appartengano, né cosa stia realmente succedendo.

Strada facendo la situazione non migliore. C’è un cecchino che spara a chiunque provi ad attraversare la strada davanti casa sua, un gruppo di persone a guardia di un benzinaio che ha appena torturato due tizi più che altro, pare, per vendicarsi del fatto che non li salutavano al liceo.

Ed ancora, una città dove sembra non essere cambiato nulla ma che pullula di persone armate sui tetti ed infine un gruppo di soldati psicopatici nazionalisti, tra i quali Jesse Plemons, che ammucchiano cadaveri in una fossa comune.

L’intento è chiaro.

Garland vuole restituirci la devastazione e la confusione che accompagnano ogni guerra, senza prendere parte.

Al tempo stesso il suo film parrebbe voler essere una riflessione sui limiti morali del documentare gli orrori del mondo.

Civil war sembra voler porre delle domande allo spettatore ma, in realtà, si limita ad urlare delle risposte facili, banali e persino retoriche.

Lo sguardo del regista è di una superficialità che sfocia nell’immorale e vorrebbe trovare una contrapposizione nelle foto in bianco e nero scattate dai vari protagonisti.

Quello che resta invece è un viaggio banale tra territori in cui oramai rimangono solo tracce di ciò che è avvenuto.

Pare di essere in una qualsiasi puntata di The walking dead più che in un film che narri di una guerra civile sul suolo americano.

Garland cerca ossessivamente la bella immagine ed il suo sembra un film prodotto seguendo più che altro l’algoritmo di una qualunque piattaforma.

Il risultato è un cinema patinato che non riesce mai a produrre immagini che scuotano lo spettatore.

Viene naturalmente in mente il cinema a basso costo di Diary of the dead (Le cronache dei morti viventi, 2007) di Romero, che è uno dei riferimenti di Civil war, il quale, armato di videocamera, poneva interrogativi sulla sovraesposizione mediatica mentre mostrava come, attraverso il montaggio, fosse possibile cambiare la narrazione dei fatti.

I tempi sono cambiati ed oggi dobbiamo fare i conti con un cinema che sembra incapace di elaborare una riflessione, tanto dal punto di vista estetico che dei contenuti.

Bastano un paio di belle immagini, una musica accattivante ed uno show ad uso e consumo di occhi pigri.

Non bisogna interrogarsi, tanto c’è la cronaca che offre l’aggancio con la realtà e permette di spacciare per politico un film sul quale invece ci sarebbe da ragionare.

D’altronde questo non è cinema di genere d’autore, parliamoci chiaro.

Questo è un blockbuster usa e getta, l’ennesimo fast food.

Almeno stavolta c’è stata qualche voce critica che ne ha sottolineato l’inconsistenza.

Per il resto oggi un film come Civil war basta ed avanza.

E poco importa dei buchi di trama, dei dialoghi didascalici che continuamente spiegano e sottolineano i due concetti presenti, l’importante è tornare a casa convinti di aver assistito ad un cinema “impegnato” senza che questo abbia posto un dubbio che sia uno o una domanda che sia una.

La riflessione rimane sulla carta, tanto c’è stato Capitol Hill e le elezioni americane sono alle porte, che altro volete?

EMILIANO BAGLIO


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