Cento anni fa nasceva Leonardo Sciascia. Intellettuale e scrittore che trovò l'equilibrio formale tra tradizione e rivoluzione

di redazione 08/01/2021 CULTURA E SOCIETÀ
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Uomo semplice e intellettuale complesso, capace di provocare dibattiti fruttiferi, narratore e saggista, che riesce spesso a fondere queste due anime, per indagare la realtà e le sue ipocrisie "anche a costo di fraintenderla", tanto da suscitare alcune dure polemiche con le sue prese di posizione sulla politica e sulla giustizia, Leonardo Sciascia è una di quelle figure esemplari del secondo Novecento e di cui sentiamo l'assenza in un dialogo politico e sociale oggi tanto impoverito, celebrando venerdì 8 gennaio i cento anni dalla sua nascita a 31 dalla sua scomparsa nel 1989.

Come narratore esordisce con libri dedicati alla sua Sicilia, cominciando con i suoi ricordi di maestro in 'Le parrocchie di Regalpetra' (cittadina dietro cui si nasconde la sua natale Racalmuto in provincia di Agrigento, cui è sempre tornato tutta la vita) e 'Gli zii di Sicilia', lucidi, ironici, con già sottotraccia quella sua forte formazione illuminista e direi volterriana ('Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia' è un suo titolo, del 1977, e c'è poi su quella linea 'Il consiglio d'Egitto'). Da lì viene quel suo impegno, concreto e che diviene anche e sempre più altamente metaforico, nel cercar di raccontare e spiegare i segreti e i meccanismi di potere nella sua terra, a partire da quello mafioso che tutto contamina (e si ricordano 'Il giorno della civetta' e 'A ciascuno il suo' nei primi anni '60) e poi, allargando la sua paziente esplorazione, nell'Italia democristiana e socialista in genere (e citiamo 'Il contesto', 'Todo modo' per arrivare a 'L'affaire Moro' negli anni '70), con risultati a volte accolti come provocatori.

Sciascia, nato nel 1921, consegue il diploma magistrale nel '41 e lavora al Consorzio Agrario a Racalmuto, conoscendo la realtà contadina e la società siciliana delle campagne, fino al 1949 quando diviene maestro elementare. Come scrittore debutta nel 1950 con un volume di poesie, 'Favole della dittatura' (recensito da Pasolini), e quindi con 'Gli zii di Sicilia' (su una copia del quale si dice il padrino Genco Russo gli chiese la dedica dopo un'intervista e l'autore scrisse: "Allo zio di Sicilia, questo libro contro tutti gli zii"), racconti di rivisitazioni storiche con l'ottica di proletari siciliani cui seguiranno i due successivi romanzi gialli sulla mafia, più riusciti e compiuti, dopo i quali e dopo i saggi 'Morte dell'inquisitore' e 'Feste religiose in Sicilia', nel 1969 inizia a collaborare col Corriere della Sera. Arriveranno quindi i due racconti sempre tinti di giallo 'La scomparsa di Majorana' e 'Il teatro della memoria', prima del suo impegno attivo in politica che lo vede eletto consigliere comunale a Palermo nel 1975 come indipendente del Pci, con dimissioni dopo due anni, per accettare nel 1969 la candidatura nelle liste radicali in Europa e alla Camera dei Deputati, per la quale opta dopo due mesi a Strasburgo, finendo negli anni '80 per esprimere pubblicamente le sue simpatie per il Psi e chiedendo candidamente a Craxi di rinnovare la classe politica siciliana, attirandosi ironie e attacchi. Così è contro il Pci del 'compromesso storico', poi è perché si tratti con le Br per Moro, è critico verso i riconoscimenti al pentitismo, si attribuisce a lui l'affermazione "Né con lo Stato né con le Br" e denuncia alla Camera la possibilità di torture nella lotta al terrorismo.

l maestro di Regalpetra si trasferisce a Palermo nel 1967. E in quei mesi esce la sua prima raccolta, curata assieme a Salvatore Guglielmino. Si chiama Narratori di Sicilia, per i tipi della casa editrice Mursia. 

La seconda raccolta è invece un’antologia scolastica, L’età e le età. La pubblica all’inizio degli anni ’80, con Giuseppe Passarello e Susi Siino. L’editore è palermitano, Giovan Battista Palumbo, ma la cosa più interessante sono gli anni in cui lavora a quella pubblicazione per le scuole medie. Siamo esattamente a cavallo fra l’esperienza in Consiglio comunale da indipendente con il Pci, e quella alla Camera dei deputati con il Partito radicale. Diversi anni dopo Passarello racconta alcuni episodi di quel periodo. Gli incontri con Occhetto prima e Pannella poi. I carteggi spigolosi con Pajetta. Le riflessioni di Sciascia deputato.

Il primo aneddoto però è il rapporto con i luoghi. Leonardo Sciascia nella sua Racalmuto percorre strade e marciapiedi con una ritualità quasi ritmica. Lo descrivono le foto, oltre alle testimonianze degli amici. E lo descrive anche la sua statua di bronzo che si trova in corso Garibaldi, a pochi metri dal Circolo Unione. Verticale e a misura d’uomo, rappresenta lo scrittore racalmutese nel suo quotidiano, in movimento.

Quel quotidiano lo costruisce anche a Palermo. Dove uno dei tragitti che preferisce è quello che lo porta da casa a via Siracusa, dove è di stanza l’editore Sellerio. Sciascia parte dall’appartamento che affaccia su Villa Sperlinga, proseguendo su via Libertà, quindi lungo passa per Villa Pajno. Poco più avanti il Giardino Inglese, piazza Croci e infine la casa editrice.

Proprio da Sellerio un giorno lo cerca Marco Pannella. È il 26 aprile 1979. Siamo alla vigilia delle elezioni: Sciascia si presenterà in lista sia per le Politiche sia per le Europee. Pannella lo ha già convinto, corteggiandolo e trovando una condivisione di posizione politica “sulla linea garantista e umanitaria assunta nella vicenda Moro”, raccontano a via di Torre Argentina. Lo scrittore non sarà l’unico proveniente dal Pci a candidarsi coi radicali. Viene eletto, ma nel frattempo continua a scrivere e a curare L’eta e le età. La cui prefazione nasce proprio durante una seduta parlamentare, in una giornata sonnacchiosa in cui è plastica la difficoltà dello scrittore a interpretare il ruolo di politico. Definisce “mediocri” i suoi colleghi deputati, proprio in un colloquio privato con Giuseppe Passarello, raccontato più di vent’anni dopo.

In realtà lo scrittore non è fra i più presenti a Montecitorio, ma ha un approccio battagliero. E il suo gruppo parlamentare è senza dubbio il più vivace: i radicali cambiano linguaggi e approcci parlamentari. Nella prima seduta decidono di candidare proprio Sciascia a presidente della Camera, ottiene 33 voti. Poi presenta da cofirmatario un miglialio di interrogazioni e una cinquantina di proposte di legge. Una sola sarà a sua prima firma: “norme a tutela della pubblica incolumità nelle attività di ricerca, estrazione e utilizzazione delle acque sotterranee”. A poche settimane dal drammatico episodio di Vermicino.

Pian piano Sciascia si avvicina ai socialisti: nel 1981 è nella delegazione radicale che si reca al congresso del Psi. Nel 1985 annuncia che alle Amministrative voterà socialista, l’anno dopo Bettino Craxi si reca a Siracusa per una visita istituzionale. Decide di fare altri duecento chilometri per andare a trovare Sciascia nella sua casa di campagna. Un incontro privato ma nei fatti pubblico, a uso e consumo della stampa. A dimostrazione di una vicinanza, di un sodalizio. Manda anche un messaggio al congresso socialista, rammaricandosi di non essere riuscito a partecipare. Viene intervistato dall’Avanti! pochi mesi prima di morire, sostenendo la proposta del segretario di abolire il voto segreto.

I suoi ultimi appelli sono però da intellettuale senza etichette: nell’agosto 1988 a sostegno di Adriano Sofri e nel gennaio 1989 – assieme a Dario Fo e a tanti altri – per promuovere una lista unitaria fra verdi, radicali e demoproletari alle Europee. L’ultimo Leonardo Sciascia è un convinto ambientalista.

Sciascia e Pasolini hanno riscattato la coscienza culturale italiana nella seconda metà del XX secolo. I destini di entrambi sono stati accomunati dal timore e dall’odio che il Potere aveva per essi, manifestando in occasioni, con modi ed esiti diversi, il tentativo di farli tacere.

Il rapporto di stima e di amicizia tra Leonardo Sciascia e Pier Paolo Pasolini risale ai primi anni cinquanta, quando l’uno e l’altro erano parimenti ignoti al grande pubblico. Il poeta friulano recensì sulla rivista romana “La libertà” il primo scarno libello del maestro di Racalmuto, “Le Favole della dittatura” di cui evidenziava la scrittura essenziale, la purezza del linguaggio. Dalla recensione nacque un rapporto epistolare e anche personale che Sciascia ricordò in “Nero su nero” nel 1980.

«… da quel momento siamo stati amici. Ci scrivevamo assiduamente e ogni tanto ci incontravamo, nei dieci anni che seguirono, e specialmente nel periodo in cui lui lavorava all’antologia della poesia dialettale italiana. Poi la nostra corrispondenza si diradò, i nostri incontri divennero rari e casuali (l’ultimo nell’atrio dell’albergo Jolly, qui a Palermo: quando lui era venuto a cercare attori per Le mille e una notte). Ma io mi sentivo sempre un suo amico; e credo che anche lui nei miei riguardi. C’era però come un’ombra tra noi, ed era l’ombra di un malinteso. Credo che mi ritenesse alquanto – come dire? – razzista nei riguardi dell’omosessualità. E forse era vero, e forse è vero: ma non al punto da non stare dalla parte di Gide contro Claudel, dalla parte di Pier Paolo Pasolini contro gli ipocriti i corrotti e i cretini che gliene facevano accusa. E il fatto di non essere mai riuscito a dirglielo mi è ora di pena, di rimorso. Io ero — e lo dico senza vantarmene, dolorosamente – la sola persona in Italia con cui lui potesse veramente parlare. Negli ultimi anni abbiamo pensato le stesse cose, detto le stesse cose, sofferto e pagato per le stesse cose. Eppure non siamo riusciti a parlarci, a dialogare. Non posso che mettere il torto dalla mia parte, la ragione dalla sua. E voglio ancora dire una cosa, al di là dell’angoscioso fatto personale: la sua morte – quali che siano i motivi per cui è stato ucciso, quali che siano i sordidi e torbidi particolari che verranno fuori – io la vedo come una tragica testimonianza di verità, di quella verità che egli ha concitatamente dibattuto scrivendo, nell’ultimo numero de “Il Mondo” una lettera a Italo Calvino».

Uomo irrequieto, insomma, sempre alla ricerca di qualcosa che gli sembrasse più consono e meno allineato per inseguire il proprio bisogno di non appartenenza e essere contro, che cerca sempre una sua ottica sulle cose, arrivando a scrivere nel 1987 un celebre articolo 'Contro i professionisti dell'antimafia' che gli procurò isolamento e critiche aspre da tutto il mondo della cultura e della politica di sinistra, con tali contraccolpi che finì poi per lasciare il Corriere e andare a collaborare con La Stampa. I suoi romanzi trovano, come si è detto, la propria forma in un'abile chiave gialla, come genere coinvolgente che nasce dalla sua ricerca illuminista della verità, ma corretta (vincitore del Premio Pirandello nel 1953 e autore di 'La corda pazza', scritti che sin dal titolo rimandano alla teoria espressa nel 'Berretto a sonagli') da un'essenziale nota pirandelliana, per la vena ironica di fondo legata a quella impossibilità obiettiva di distinguere tra le diverse ottiche della verità e della menzogna. Per alcuni versi quindi i gialli di Sciascia sono anticipatori di quella linea poi del noir mediterraneo (da Izzo a Carlotto) che userà il genere per farne denuncia civile, sociale e di costume. In questa ottica, complementare tema di Sciascia è certamente l'importanza del ricordare, della memoria, e La Memoria chiamerà la collana che ideerà e dirigerà per l'editore Sellerio. 


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