Da 5 bloods - Come fratelli

Spike Lee, indeciso su che film realizzare, riesce a sbagliarli tutti.

di EMILIANO BAGLIO 16/06/2020 ARTE E SPETTACOLO
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Disponibile su Netflix.

 

Otis (Clarke Peters), Melvin (Isiah Whitlock Jr.), Eddie (Norm Lewis) e Paul (Delroy Lindo) dopo oltre quarant’anni tornano nel Vietnam, dove avevano combattuto da giovani, per dare una degna sepoltura al loro ex commilitone Norman (Chadwick Boseman) ma anche per recuperare qualcosa di assai prezioso.

È veramente tanta la carne al fuoco messa da Spike Lee nel suo ultimo lavoro con il risultato, però, che il regista sembra perennemente indeciso su quale strada seguire e che tipo di lungometraggio realizzare.

Innanzitutto c’è il film sul Vietnam che si intreccia con una sorta di bignami delle lotte politiche dei neri negli anni ’60 ad uso e consumo di un pubblico nei confronti dei quali, più volte, Spike Lee sembra riporre poca fiducia; sia per quanto riguarda le capacità di comprensione sia per quanto riguarda la memoria storica.

Ne è una riprova il modo in cui sono realizzati i flashback ambientati all’epoca della guerra.

Da una parte, con un effetto di straniamento, il regista ha utilizzato gli stessi attori (escluso ovviamente Norman), invece di ricorrere ad interpreti più giovani.

Dall’altra nei flashback il formato dell’inquadratura cambia.

Al che non si capisce se sia una scelta stilistica o una sorta di aiuto qualora lo spettatore non si accorga che si tratta appunto di ricordi.

Delle due l’una, o Spike Lee non ha fiducia nel pubblico oppure non ha fiducia nei mezzi propri del cinema, il che è grave in entrambi i casi.

Il ritorno in Vietnam coincide con il riaffiorare di vecchi fantasmi e siamo così al secondo tema, forse quello più riuscito, sia per come sono tratteggiati i personaggi, le loro sconfitte, i loro traumi e più in generale il destino al quale andarono incontro i reduci dal Vietnam con l’aggravante che in questo caso erano anche neri; sia per la splendida interpretazione di Delroy Lindo nei panni di Paul.

Spike Lee dunque porta avanti un doppio discorso, uno sul destino dei militari neri in Vietnam, spinti dall’illusione che combattere per il loro paese gli avrebbe aiutati a veder riconosciuti i propri diritti; l’altro più generale sul persistente razzismo degli Stati Uniti.

Il problema è che, troppo preoccupato della sua coerenza di autore nero militante e politicamente impegnato, Spike Lee si sente in dovere di sottolineare ogni concetto con l’evidenziatore giallo procedendo con la grazia di un carro armato che riversa sullo spettatore quintali di insopportabile didascalica retorica.

Resterebbe a questo punto l’altro film, quello incentrato su come i soldi possano rovinare un’amicizia e che vorrebbe essere un action a suon di sparatorie, corpi che esplodono in un tripudio di viscere, agguati, sparatorie, doppiogiochisti e rivelazioni.

Su quest’ultimo meglio stendere un velo pietoso e, per rimanere su titoli recenti, riandarsi subito a vedere Triple frontier di J. C. Chandor non fosse altro che per riprendersi dalla noia di un Da 5 bloods che, per non farsi mancare nulla, termina con il purtroppo sempre attuale “Black lives matter”.

Che tedio.

 

EMILIANO BAGLIO


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