Memorie al confino. Pavese, Brancaleone e altri miti. Il canto di fedeltà di Giovanni Carteri alla sua terra

di Massimo Lorito 22/12/2015 CULTURA E SOCIETÀ
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Ci sono libri che esauriscono tutto ciò che hanno da dire, se lo hanno, alla prima lettura, ci sono libri che non smettono di dire, di parlarci, di interrogarci, di suggestionarci, di lasciarci scoprire pezzi di vita che non conoscevamo. Alla seconda categoria appartiene senza dubbio “Memorie al confino, Pavese, Brancaleone e altri miti (edizioni Rubbettino) di Giovanni Carteri.

Si dice abitualmente “sul filo della memoria”, per indicare testi che si cimentano nel difficile compito di aprire uno squarcio sull’ineffabilità della dimensione della memoria, leggendo le pagine scritte da Carteri - scrittore, autore, studioso della letteratura e delle tradizioni meridionali - si ha la netta sensazione che in queste pagine la memoria non percorra e non si dipani su un unico filo, ma costituisca, attraverso il tempo, una sorta di tela multidirezionale su cui le vite degli esseri umani vanno come ad aggrapparsi, a non disperdersi. Il merito più grande delle belle pagine scritte da Carteri è proprio questo, quello di lanciare un appiglio ai naviganti nella complessità del vivere e nel tempo che scorre. Un rifugio autentico.

La metafora del mare accompagna l’idea all’origine del testo. E’ il mare Ionio con il suo respiro orientale, bizantino che bagna le coste di quella parte della Calabria che si affaccia verso la Grecia, ad ispirare l’autore. E’ un mare di confine, di miti, di odori, di tumulti e dal largo respiro che sin da giovanissimo, ci suggerisce l’autore, inebria e impasta gli sguardi di chi si ferma a guardarlo. Eppure l’universo simbolico di chi vive in questo estremo lembo della penisola italiana non è solo quello bagnato e salato dello Ionio, ma anche quello duro, aspro, argilloso e ricco di colori delle colline e dei monti che nascono esattamente dove il mare si ferma. Quelle ondulazioni, estrema propaggine dell’Aspromonte, sulle quali gli antichi abitatori di queste terre costruirono borghi contadini, come Brancaleone dove Carteri è nato nei primi anni Cinquanta. E’ proprio l’antico, oggi abbandonato, borgo di Brancaleone la culla della fantasia dell’autore, rievocato attraverso una prosa lineare, dolce, a tratti lirica, che quasi ci fa sentire gli odori di quella vita contadina, rimasta intatta nel suo cuore.

I riti antichi e sempre uguali che scandivano il tempo degli anni che furono. Il pane, l’arrivo del Natale, la vendemmia e gli odori della terra come quello, forte, dell’origano che non va via dalle narici una volta inalato; perché, come scriveva Pavese, Un paese ci vuole, per sentirsi ancorato a qualcosa mentre tutto il resto fugge via, o ci vuole per partire, o ci vuole anche per abbandonarlo, ma ci vuole, un giorno, per farvi ritorno.

Non è casuale la citazione di Cesare Pavese, non si tratta di una dotta citazione dell’autore, poiché lo scrittore piemontese tra il 1935 e il 1936 trascorse un anno di confino decretatogli dal regime fascista proprio a Brancaleone, tale evento serve a Carteri, per offrire le coordinate al suo viaggio. E’ un espediente letterario ed esistenziale allo stesso tempo che l’autore ricombina con le sue personali reminiscenze per delineare lo stato d’animo dell’esiliato, di chi vive sospeso tra radici inestirpabili e il desiderio di viaggiare con l’intelletto e la memoria in luoghi di affinità elettiva.

Un viaggio nel quale Carteri si fa accompagnare dall’amore per i grandi della letteratura meridionale, Rocco Scotellaro, Corrado Alvaro, Lorenzo Calogero e Franco Costabile, poeti di un sud atavico, duro, ma meravigliosamente e tragicamente bello. In ognuno Carteri legge l’amore verso le origini che qui sono più che mai le radici,  ma anche la fatica di sopportare la bellezza struggente della terra natia. Ma scorge altresì l’accusa verso un modello, quello del boom economico, che ha stracciato il mondo contadino, che ha perso il “senso religioso della vita”, che si affretta vanamente verso il vuoto di falsi valori.

Gianni Carteri con la sua famiglia, con l’amata madre di cui descrive la dolcezza dei gesti e l’amore infinito per i figli, ancora bambino, assieme agli abitanti del borgo vecchio, fu costretto a lasciare Brancaleone; le frane, lo sviluppo economico, le scelte politiche rovinose; dice “che i suoi compaesani preferirono l’abbaglio della marina”. Tale episodio lo ha segnato e serbato dentro per tutta la vita imprimendogli quella nostalgia del ritorno che appartiene, quasi iscritto nel dna, agli uomini e alle donne di questo scorcio orientale del Mediterraneo.

 Un ritorno che egli compie, finalmente, in questo bellissimo testo, ricco di spunti e di storie da leggere con il rispetto che si deve avere quando ci si trova al cospetto di parole che sgorgano dal cuore. Nell’introduzione di Cesare Cavalleri si legge che questo ritorno è come un passo d’addio, e, purtroppo, lo è stato, fino in fondo.

Un giorno d’estate, della calda estate del 2015, Gianni, come era solito presentarsi con l’estrema cordialità e affettuosità che lo contraddistingueva, ci ha lasciato. Chi scrive ha avuto la fortuna di conoscerlo, se pure per breve tempo, ma di stabilire con lui un’immediata affinità. Abbiamo discusso di poesia, di letteratura, della Calabria, di una terra difficile, del bisogno di riscatto, dell’amore necessario per riuscire a liberare questa terra dai suoi fantasmi. Abbiamo parlato di Corrado Alvaro che per Gianni è stato uno scrittore di respiro europeo, opinione poco condivisa dalla critica, ma largamente condivisibile, a mio avviso. Di tutto questo e di molto altro, Gianni parlava con la competenza del letterato, con lo spirito critico dell’intellettuale e con la passione, intatta, di un fanciullo.

Così Gianni introduce Memorie al confino:

“Rientrerò così nel mio vecchio paese, che sa tutto di me, a luci spente, con la bocca profumata del vino di mio padre, con l’animo imbevuto delle preghiere che ogni mattina, appena alzato, recitavo con i miei fratelli, mentre mamma sistemava, in un’ansia d’amore, il letto, sotto lo sguardo dolcissimo della Madonna del Riposo. Per una mattina voglio volare su mia madre lontana formica”.

In quel triste giorno d’agosto lo salutai con queste parole:

 “Credo che Gianni sia già parte della sua amata terra, libero di osservare panorami infiniti, giunto finalmente là dove si riesce a vedere “l’erba dalla parte delle radici”, e magari nel suo viaggio lo accompagnano gli amati versi di Rocco Scotellaro”:

Io sono un filo d’erba, un filo d’erba che trema. E la mia Patria è dove l’erba trema. Un alito può trapiantare il mio seme lontano”.

 

 


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