Generazione romantica
Un'opera sperimentale che fotografa i cambiamenti della Cina degli ultimi 20 anni.

Generazione romantica, il nuovo film di Jia Zhangke, è un’opera Frankenstein; un progetto durato più di 20 anni realizzato cucendo, spesso seguendo un vero e proprio flusso di coscienza, spezzoni girati nel corso del tempo, dove le riprese amatoriali si susseguono a frammenti delle precedenti opere del regista.
La storia, poco più di un esile canovaccio, inizia nel 2001 nella Cina del nord, a Datong.
Qui si incrociano i destini di Qiao Qiao (Zhao Tao) e di Bin (Li Zhubin).
Lei si guadagna da vivere tra sfilate e serate nei club gestita, appunto dal suo manager Bin con il quale ha una relazione.
È questa la parte più interessante del film.
Zhangke non segue un vero e proprio filo logico, abbiamo a che fare con immagini montate con assoluta libertà.
Cadono anche i confini tra fiction e documentario ed è difficile capire dove finisce uno e comincia l’altro.
Bisogna lasciarsi andare, superando il carattere sperimentale ed anarchico dell’opera che, diciamolo, mette a dura prova la resistenza dello spettatore.
Piccoli episodi si susseguono ad immagini rubate alla strada, passiamo da spezzoni girati con telecamere MiniDv ad altri in HDV e 4K, mentre ogni tanto riaffiorano anche immagini prese dalle precedenti opere dell’autore.
La storia prosegue poi nella zona della diga delle Tre gole, la cui costruzione, con i conseguenti sconvolgimenti ambientali e la distruzione di intere città, era già stata al centro del precedente Still life (20026).
Qui, anni dopo, ritroviamo Qiao Qiao alla ricerca di Bin, il quale si era trasferito nella zona in cerca di migliore fortuna e si ritrova implicato in loschi affari con un politico locale corrotto.
I due si incontreranno un’ultima volta molto tempo dopo, nella Cina dell’epoca del COVID, entrambi oramai anziani, in un mondo che, probabilmente, faticano a riconoscere, nel quale i soldi sono sempre più legati alla realtà virtuale; si veda l’episodio di Bin che cerca di fare affari con un influencer di Tik tok; e dialoghi surreali con robot adibiti all’accoglienza dei clienti del supermercato dove lavora la donna.
Jia Zhangke ritorna dunque su del materiale preesistente, facendo quasi il punto sulla sua carriera, rielaborando liberamente, immagini, spunti e temi dei suoi precedenti lungometraggi.
Il gioco, ovviamente, funziona meglio se si conosce bene il regista altrimenti il rischio è sempre quello di trovarsi di fronte ad un’opera ostica.
Tuttavia basta abbandonarsi al flusso delle immagini per ritrovarsi in uno stato ipnotico sospeso che, comunque, ammalia ed affascina lo spettatore in un film altamente sperimentale, fatto, come abbiamo visto, di frammenti lasciati da parte nel corso degli anni e cuciti senza preoccuparsi troppo della coerenza ma seguendo l’ispirazione, lasciando da parte lo sviluppo di una storia vera e propria, nella quale le immagini rubate e sgranate dialogano con quelle ultra tecnologiche dei giorni nostri.
Si tratta, ovviamente, di poco più di un pretesto per riflettere, innanzitutto, sul proprio percorso di cineasta e, al tempo stesso, scattare un’istantanea in movimento degli ultimi vent’anni di storia della Cina.
Non a caso si parte nell’estremo nord, in una città mineraria dalle case che sembrano fatte d’argilla, con le strade ricoperte di quella polvere portata da un forte vento incessante.
Qui ritroviamo i volti sporchi e stanchi dei minatori, i pomeriggi nei circoli per gli operai ad ascoltare vecchie arie delle opere popolari, volti catturati di nascosto per strada, canti di donne riunite per l’8 marzo.
La seconda parte, invece, ci mette a confronto con i profondi mutamenti della Cina moderna con quella costruzione della diga delle Tre gole che diventa così il simbolo di un paese che corre verso il futuro.
Le macerie delle case delle città che verranno inghiottite dall’acqua si alternano ai meravigliosi paesaggi naturali destinati a sparire, inghiottiti dalla corsa verso il progresso.
Infine c’è la Cina di ieri, quella che scende in piazza per festeggiare l’assegnazione delle Olimpiadi ma, soprattutto, quella della pandemia.
Si potrebbe anche essere tentati di trarre una morale dai profondi mutamenti di cui siamo spettatori e pensare che Generazione romantica sia un atto di accusa verso lo sfrenato capitalismo della Cina contemporanea, un capitalismo sempre più immateriale che sacrifica tanto l’umanità quanto il paesaggio.
Ma l’impressione è che Jia Zhangke non sia tanto interessato a questo ma che, piuttosto, si limiti a registrare con la sua telecamera, ciò che vede lasciando allo spettatore il compito di trarre, se proprio vuole, le sue personali conclusioni.
EMILIANO BAGLIO
