Leonard Cohen. Ottant'anni di poesia

di Massimo Lorito 19/09/2014 ARTE E SPETTACOLO
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Quando il suo primo album “Songs of Leonrad Cohen” vide la luce nel tardo autunno del 1967, in pochi lo notarono. Erano gli anni dell’ondata lisergica della psichedelica, del rock ribelle, degli Hippies. Un disco come quello così intimo, sussurrato, che parlava di morte, dell’ambiguità dei sentimenti umani, di depressione, sembrò quanto meno fuori posto.

Oggi quel lavoro è ritenuto un capolavoro, un punto di riferimento per la musica contemporanea, ma già allora, tutto sommato, rappresentava bene l’anima e l’arte del suo compositore. Leonard Cohen, canadese di Montreal ebreo di origini lituane, sin da giovanissimo, da quando cominciò a scrivere poesie, dava l’impressione di un tipo fuori posto, timido ma allo stesso tempo solido, come la voce che negli anni si è fatta cupa e tagliente come una lama di rasoio. Quel disco che vendette pochissimo non sfuggì a gente come Dylan e Joan Baez, che ne intuirono le potenzialità espressive e a Cohen cominciarono ad ispirarsi. Il primo album presentava già tutti i temi e lo stile che resero Cohen così unico e, in seguito, popolare. Le contraddizioni dei sentimenti umani, il senso di colpa, l’amore per la storia, il mito, per i grandi bisogni dell’essere umano; la guerra e la pace come inevitabili e tragici stadi della vita, la giustizia sociale ma anche l’incontestabilità della diversità degli esseri umani, e ancora l’amore come assoluto bisogno individuale; poi l’estrema cura delle parole utilizzate, lo struggente lirismo delle metafore scelte, la coerenza del personaggio impossibile da sottomettere a qualsiasi logica commerciale.

Un alieno Cohen, con la sua chitarra da menestrello medioevale, con il suo sguardo profondo e disperso lontano mille miglia dalla quotidianità, ma che, paradossalmente, quella quotidianità la sa dipingere magistralmente; menestrello creatore di melodie da ninne nanna che non nascondono l’assurdità della vita mentre narrano di lotte di biblica reminiscenza, vedi la splendida Halleluja. L’insuccesso del primo lavoro per fortuna non lo scoraggiò: seguirono altre meravigliose perle, “Song from a room” (1969), con canzoni gioiello come The Partisan, struggente descrizione della barbarie della guerra, della lotta fra uomini in divisa, e Bird on a wire, tormentato apologia della libertà individuale.

Nel 1971 con Songs of Love and hate, Cohen è ormai un artista consacrato. I suoi live sold out mesi prima. Eppure proprio al culmine del successo, dalla metà degli anni settanta la sua anima inquieta cominciò a manifestare segnali di insofferenza. Sebbene di natura stanziale Cohen cambia ciclicamente dimore. Dal suo Canada, dalle atmosfere così europee, dall’ispirazione degli chansonnier francesi, si trasferisce e va a vivere a lungo nell’isola di Idra in Grecia a caccia dei suoi miti preferiti, per sostare per sei anni, dal 1993 al 1999 in un monastero tibetano nel cuore della California, assecondano quella tensione mistica così presente nei suoi testi, ma dichiarando puntualmente che nato ebreo tale morirà. Anche i lavori discografici non si sottraggono alla coerenza di un artista che non pubblica per adempimenti contrattuali ma per bisogno espressivo. Così Recent songs, Various positions, I’m your man, The Future, Ten new songs, fino al recente Old ideas, sono intervallati da lunghi periodi nei quali Cohen si dedica alla ricerca filosofica, alle arti figurative, al cinema, alla produzione di video, alla sua prima grande passione, amore mai abbandonato, la poesia.

Perché, ci stiamo girando intorno dall’inizio di questo, per forza di cose incompleto articolo, è fin troppo chiaro che quando parliamo di Leonard Cohen, parliamo di un poeta, uno dei maggiori della nostra contemporaneità. Un poeta che ha scelto la forma canzone, ha scelto di essere un moderno cantastorie, per esprimere il proprio elegiaco mondo interiore. Il suo essere poeta lo ha portato ad esplorare mille percorsi, non facendosi mancare neppure le droghe e l’alcol, scivolando fra le tante possibilità di essere un artista. Nel suo viaggio è stato guidato dalla vocazione di “scrittore” di emozioni, da tempi eccentrici rispetto ai modelli abituali di produzione e di lavoro, anche di quelli artistici. Da uno sguardo sempre pietoso, mai inquisitorio, sull’avventura umana, dalla conoscenza della vanità umana, dalla consapevolezza dei pericoli che derivano dal successo, dal suo personale per primo.

Oggi che raggiunge il traguardo degli ottanta anni, lo slancio del suo cuore non sembra affievolito, semmai ci appare ancora più penetrante la sua poetica, ancora più onesta la sua ricerca, dai toni religiosi, di verità e di amore, sincerità suggellata dal mai interrotto turbamento esistenziale che fedelmente lo accompagna, ancora più necessaria la sua poesia. In una sua lirica egli afferma di “abbracciare coloro che non cambiano”, con le sue canzoni persino l’ostinazione diventa poesia.

Lunghissima la lista d’eccellenza degli artisti che a lui si sono ispirati. Dal citato Dylan a Nick Cave, da Morrissey ai nostri De Andrè e De Gregori fino a Jeff Buckley. Per i suoi ottanta anni Cohen si è regalato un nuovo album, il tredicesimo in studio della sua carriera, “Popular problems”, a noi non resta che ascoltare queste nuove ballate, ringraziandolo, così come si dovrebbe fare, sempre, con i poeti.

  

Like a bird on the wire, like a drunk in a midnight choir, I have tried in may way to be free”



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