Pieces of a woman

L'elaborazione di una tragedia autobiografica in un film del quale è impossibile dire male tanto quanto parlarne bene.

di EMILIANO BAGLIO 19/01/2021 ARTE E SPETTACOLO
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Pieces of a woman

Disponibile su Netflix.

 

Pieces of a woman si apre con un meraviglioso e lunghissimo piano sequenza.

23 minuti ad altissima tensione durante i quali lo spettatore segue, con il cuore in gola, ogni momento del parto in casa di Martha (Vanessa Kirby, premiata con la Coppa Volpi al Festival di Venezia del 2020), aiutata dal compagno Sean (Shia LaBeouf) e dall’ostetrica Eva (Molly Parker).

Poi, quando il dramma si è oramai consumato, lo schermo diventa nero, partono i titoli di testa e comincia il film vero e proprio che è, onestamente, molto meno interessante di questo incipit folgorante.

È oggettivamente impossibile parlare male del primo film girato negli Stati Uniti da Kornél Mundruczó.

Innanzitutto perché la sceneggiatura, firmata da Kata Wéber, moglie del regista, è autobiografica e nessuno può rimanere insensibile dinnanzi ad una simile perdita.

In secondo luogo perché ci troviamo dinnanzi ad un film, oggettivamente, ben fatto e sostenuto dalle performance straordinarie di tutto il cast.

Tuttavia è difficile anche parlar bene di quest’opera.

Forse, data proprio l’origine autobiografica della storia, il regista e la sceneggiatrice, hanno trattato il materiale con estrema cautela con il risultato, però, che ne è venuto fuori un film più freddo della Boston in cui è ambientato.

Certo, c’era il rischio continuo di scivolare nel melodrammatico e di dare vita ad un prodotto che facesse troppo leva sui sentimenti dello spettatore, ma alla fine il risultato è che, per quanto possa sembrare assurdo, quella sensazione di piena partecipazione data dalla magnifica sequenza iniziale, non scatta più durante la visione.

Così ci ritroviamo a fare i conti con una diversa elaborazione del lutto in cui, la donna interiorizza i sentimenti mentre l’uomo gli esteriorizza, il che, sinceramente ci sembra una visione un po’ troppo schematica e persino semplicistica della vicenda.

Inoltre l’autore del film mette veramente troppa carne al fuoco.

Da una parte c’è, appunto, la diversa elaborazione del lutto, unita alla crisi di coppia; tema che si intreccia con i conflitti familiari tra Martha e la madre (Ellen Burstyn) e tra quest’ultima e Sean.

Conflitti che a loro volta nascondono anche una sorta di lotta di classe visto che l’ambiente dal quale proviene Martha è alto borghese mentre Sean appartiene più al proletariato.

Non bastasse dentro Pieces of a woman troviamo persino parti di vero e proprio film processuale, l’olocausto e persino il grunge, il tutto risolto con poche battute o scene che non riescono mai ad approfondire nessuno dei temi messi sul piatto.

Ovviamente è chiaro che l’anima del film sia rappresentata da Martha ma a questo punto, forse, sarebbe stato meglio evitare di caricare il film con tutta una serie di soggetti nessuno dei quali sufficientemente sviluppato, comprese le vicende di alcuni personaggi chiave, primo tra tutti Sean, la cui storia si chiude in maniera repentina ai limiti dell’incomprensibile.

Ma laddove Pieces of a woman mostra tutta la sua debolezza è nell’uso di alcune metafore di grana grossa.

La prima è quel ponte la cui costruzione scandirà le varie fasi della vicenda e che si capisce subito che quando sarà finito sancirà il termine della storia e nelle cui sponde, che finalmente si uniscono, si può veder simboleggiato tanto il percorso della coppia (però all’inverso) quanto il raggiungimento di un nuovo equilibrio.

Ancora peggio vanno le cose con il processo di germinazione dei semi della mela, non solo per il valore simbolico all’interno del film del frutto in sé ma soprattutto perché cadono le braccia nel veder rappresentato in maniera così rozza il grande cerchio della vita ed il processo di elaborazione del lutto attraverso la creazione di una nuova vita.

Proprio tali semi, saranno alla base dell’ultima scena in cui Mundruczó si arrende definitivamente ai dettami di Hollywood con una sorta di lieto finale che non c’entra proprio nulla con quanto faticosamente costruito sino a quel momento.

EMILIANO BAGLIO


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