2 Agosto 1980. 40 anni dall'infame strage di Bologna. Gelli e la P2 pagarono i Nar

di redazione 30/07/2020 CULTURA E SOCIETÀ
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Mattarella a Bologna

Dolore, ricordo e verità piena". Sergio Mattarella (foto) riassume con queste tre parole il senso della sua presenza a Bologna. Una visita storica. Il presidente della Repubbliva arriva sotto le Due Torri intorno alle 10.50. Il cardinale Matteo Maria Zuppi lo accoglie in via Altabella salutandolo con il gomito, come si conviene in questi tempi di Covid. Il Capo dello Stato è giunto in città in forma privata per rendere omaggio alle 81 vittime della strage di Ustica e alle 85 della strage della stazione, nel quarantesimo anniversario. Dopo Pertini, è il primo Capo dello Stato presente alle commemorazioni.

Poco dopo le 11 il cardinale presiede in cattedrale la messa con il presidente della Repubblica in prima fila tra i fedeli. In basilica le panche sono state numerate e tutti i presenti, 248, hanno il loro posto assegnato e indossano la mascherina nel pieno rispetto delle norme per contrastare la diffusione del Covid. Quando Mattarella fa il suo ingresso in chiesa i familiari delle vittime delle stragi, le istituzioni (presenti il sindaco Virginio Merola e il presidente della Regione, Stefano Bonaccini) e la stampa si alzano in piedi per un omaggio. Poi prende la parola Zuppi: "Chiediamo perdono per il male che rende Caino un fratello verso l'altro e anche per l'indifferenza, sono vicino a tutti i familiari delle vittime".

"Fare memoria è doloroso - aggiunge nell'omelia -, sentiamo l'assenza, atroce anche a distanza di anni, delle vittime. Meditiamo su come l'uomo può distruggere la vita e anche se stesso, Caino che come Giuda è sempre nostro fratello. Riviviamo oggi lo strapppo inaccettabile della morte". "La memoria - insiste il cardinale - ci fa provare anche l'acuta e insopportabile ingiustizia della mancanza di verità, amara, perché memoria anche di delusioni, di ritardi, di opacità spesso senza volto e senza nome, di promesse non mantenute, di mandanti, che ci sono, protetti dall'ombra di quelle che sono vere e proprie complicità".

“Chiediamo ancora che chi sa qualcosa trovi i modi per comunicare tutto ciò che può aiutare la verità, perché anche se scappiamo dal giudizio degli uomini non scappiamo dalla nostra coscienza e soprattutto dal giudizio di Dio”. È l'accorato invito alla verità del cardinale. “Non accettiamo come innocui i semi dell'odio e del pregiudizio, le ideologie che annullano la persona, l'uso di parole che diventano armi, la superficialità di cercare a tutti i costi la convenienza senza difendere la verità e il bene comune”, dice ancora.

A un certo punto si rivolge a Mattarella: “Credo di esprimere a nome di tutti i parenti e di tutti noi un ringraziamento commosso a lei, signor presidente, per questo gesto che completa le tante e importanti parole con cui in questi anni lei ha sempre accompagnato la memoria di queste come di ogni strage, grazie signor presidente”.

LA VICENDA

Un boato improvviso, lacerante, poi solo urla, singhiozzi, polvere e macerie. L'atrio della stazione centrale di Bologna si riempie di sangue e detriti, sulla pensilina del primo binario l'esplosione investe anche il treno Adria Express 13534 Ancona-Basilea, in ritardo di un'ora sulla tabella di marcia, le grida dei feriti e dei passeggeri incontrano volti annichiliti dallo choc e dall'orrore. Sono fotogrammi della memoria del 2 agosto 1980, un torrido sabato di esodo verso le vacanze.

    Alle 10.25 (l'ora della tragedia rimarrà per sempre impressa nelle lancette ferme del grande orologio) l'esplosione squarcia l'ala sinistra della stazione su piazza Medaglie d'Oro: la sala d'aspetto di seconda classe, gli uffici del primo piano, il ristorante. Nel ristorante-bar-self service perdono la vita sei lavoratrici; tra le vittime anche due taxisti in attesa di clienti nel posteggio davanti all'edificio polverizzato dallo scoppio. 85 morti e 200 feriti: la strage più efferata d'Italia cancella storie e persone di ogni età e provenienza. La prima ipotesi circolata sulle cause, l'incidente provocato dallo scoppio di una caldaia, non regge a lungo, anche perché nel punto dell'esplosione non ce ne sono, e in poche ore lascia il passo alla certezza dello scenario più temuto: l'attentato terroristico con una bomba ad alto potenziale.

    Da subito, senza soste e per ore, si mettono all'opera sanitari, vigili del fuoco, forze dell'ordine, Esercito, volontari, alla ricerca di vite da soccorrere e da salvare. Una catena spontanea che in pochissimo tempo rimette in moto una città che stava 'chiudendo per ferie'. Saltano le linee telefoniche e i primi cronisti giunti sul posto, per poter raccontare l'inferno di quei momenti, 'espropriano' la cabina dei controllori degli autobus sul piazzale, dove il telefono invece funziona. Cellulari e internet ancora non esistono. Dagli ospedali arriva l'appello a medici e infermieri di tornare in servizio, mentre un autobus Atc della linea 37, la vettura 4030, diventa simbolo di quel terribile giorno, trasformandosi in un improvvisato carro funebre che ha come capolinea la Medicina legale (allora in via Irnerio, a poca distanza) per trasportare le salme. Tante, troppe. Alla guida si mette l'imolese Agide Melloni, allora autista trentunenne: ''Mi chiesero di portare via i cadaveri con il bus. Dal mattino alle tre di notte, con i lenzuoli bianchi appesi ai finestrini. Ma in ogni viaggio c'era qualche soccorritore con me, per sostenermi''. La vittima più piccola è Angela Fresu, appena 3 anni, e poi Luca Mauri, di 6, Sonia Burri, di 7, fino a Maria Idria Avati, ottantenne, e ad Antonio Montanari, 86 anni.

    In stazione arriva il presidente della Repubblica Sandro Pertini, commosso e angosciato, mentre tutt'intorno una catena umana continua a spostare detriti nella speranza, sempre più tenue, di trovare ancora qualche traccia di vita. Quella stessa sera piazza Maggiore si riempie per una manifestazione, la prima risposta di mobilitazione politica per chiedere giustizia e verità, mentre a tarda notte all'obitorio, dove le celle frigo sembrano non riuscire a contenere così tanti corpi, un maresciallo dei carabinieri continua a tentare di dare un nome alle salme. Un'identità affidata a volte solo a brandelli di indumenti o di documenti, a un anello, ai resti di una catenina.

    Il giorno dei funerali, il sindaco Renato Zangheri ricorda come lo stesso copione fosse stato già vissuto sei anni prima, il 4 agosto 1974, sull'Italicus a San Benedetto Val di Sambro, con 12 morti e 44 feriti: ''La stessa città, lo stesso nodo ferroviario, gli stessi giorni delle vacanze, forse lo stesso proposito di recitare il crimine anche sul corpo di viaggiatori stranieri, e quindi di dimostrare ad altri popoli e governi la debolezza della nostra democrazia''. 

 

INDAGINI E PROCESSI

I soldi sporchi di Licio Gelli: cinque milioni di dollari rubati al Banco Ambrosiano e distribuiti nei giorni cruciali della strage.

I conti esteri segreti della super-spia Federico Umberto D’Amato. Le manovre per far sparire i documenti che collegano il capo della P2 all’eccidio di Bologna.

I legami inconfessabili tra i terroristi dei Nar e il killer fascio-mafioso Paolo Bellini.

E i ricatti allo Stato. Documentati da appunti “riservatissimi” del capo della polizia, tenuti nascosti in un deposito clandestino, insieme a pezzi di ordigni esplosivi sottratti alle indagini sulle prime bombe nere.

Sono gli ultimi tasselli del mosaico criminale della strage di Bologna, il più grave attentato nella storia della democrazia italiana.

Quarant’anni dopo la bomba neofascista che il 2 agosto 1980 ha ucciso 85 innocenti nella stazione dei treni, le nuove indagini della procura generale hanno identificato, per la prima volta, i presunti mandanti. A differenza di troppe altre stragi nere, lo spaventoso attentato di Bologna non è rimasto impunito. Come esecutori sono stati condannati da tempo, con diverse sentenze definitive, tre terroristi dei Nar: i capi, Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, e il loro complice allora 17enne Luigi Ciavardini.

L’ultimo processo, chiuso in primo grado nel gennaio scorso, è costato l’ergastolo a un quarto killer neofascista, Gilberto Cavallini.

Anche le responsabilità di Licio Gelli, morto nel 2015, sono già state accertate per i depistaggi successivi alla strage: il capo della loggia P2 è stato condannato in via definitiva come stratega di una lunga serie di trame per inquinare le indagini, accreditare false piste estere e coprire i terroristi di destra con base a Roma.

Manovre gestite dallo stesso Gelli, a partire dal settembre 1980, e culminate in un depistaggio di stampo terroristico, organizzato dai capi del servizio segreto militare: nel gennaio 1981 una cordata di dirigenti del Sismi, guidata dal generale Giuseppe Santovito e dal colonnello Piero Musumeci, fa ritrovare sul treno Taranto-Bologna un carico di armi e di esplosivi identici alla bomba del 2 agosto, accanto a falsi documenti di due fantomatici terroristi stranieri.

 

Il "quinto uomo" della bomba, i mandanti della P2, esponenti delle forze dell'ordine accusati di depistaggio. Il tassello mancante, il lato oscuro da portare alla luce sull'orrore del 2 agosto 1980, la Procura generale oggi è convinta di averlo in pugno.

Ci sono da tempo i nomi degli esecutori materiali: Valerio Giusva Fioravanti e la moglie Francesca Mambro condannati all'ergastolo con sentenza passata in giudicato. Definitiva anche la decisione su Luigi Ciavardini, 30 anni. Ergastolo, ma ancora in primo grado, per Gilberto Cavallini, arrivato l'8 gennaio scorso.  E ora ci sarebbero i finanziatori, gli organizzatori, ma soprattutto i mandanti.

Chi, cioè, armò gli ex Nar. Uno su tutti: Licio Gelli, il venerabile maestro della P2, condannato in via definitiva nel 1995 per depistaggio. Lui, secondo i magistrati, avrebbe dato nelle mani di Mambro e Fioravanti, incontrati a Roma il 31 luglio 1980, un milione di dollari distratto dal crac Ambrosiano, per fare saltare la stazione e lasciare sull'asfalto 85 persone, oltre a 200 feriti.

Poi Umberto Ortolani, braccio destro e l'uomo della finanza della P2, il potente prefetto Federico Umberto D'Amato, direttore dell'ufficio Affari riservati del ministero dell'Interno, e Mario Tedeschi, direttore della rivista 'Il Borghese' ed esponente dell'Msi. Tutti e quattro sono morti e per loro non potrà mai esserci un processo, né una sentenza di condanna o di assoluzione. "Ma conoscere i loro nomi - dice Paolo Bolognesi, presidente dell'Associazione familiari delle vittime del 2 agosto - è fondamentale". 

Se però per loro è stata chiesta inevitabilmente l'archiviazione, per altri quattro la Procura generale vuole il processo. A partire dall'ex primula nera di Avanguardia Nazionale, accusato di concorso nella strage, il reggiano Paolo Bellini. "A Bologna, quel 2 agosto, io non c'ero - dice lui al Carlino - e lo dimostrerò".

Bellini venne indagato lo scorso anno grazie all'identificazione in un video girato da un amatore subito dopo l'esplosione della bomba alla stazione. Il suo volto, con riccioli e baffoni, è stato poi riconosciuto anche dalla ex moglie durante l'interrogatorio di novembre: "Purtroppo è lui". 

Infine ecco i presunti depistatori: l’ex generale del Sisde Quintino Spella, oggi 91 anni e malato, e l’ex carabiniere padovano Piergiorgio Segatel, i quali avrebbero sviato le indagini dei magistrati nel 2019. Insieme a Domenico Catracchia (falso al pm), amministratore di condominio di immobili in via Gradoli a Roma, dove passarono i Nar e prima ancora le Br. Per tutti loro è stato chiesto il giudizio con l'udienza preliminare che dovrebbe essere fissata a novembre, subito dopo il deposito delle motivazioni della condanna a Cavallini.

Per collegare mandanti ed esecutori, i magistrati e la Guardia di Finanza hanno seguito il flusso di denaro. Circa cinque milioni di dollari, partiti da conti svizzeri riconducibili a Gelli e Ortolani e alla fine - un milione - arrivati ai Nar. Denaro iniziato a transitare dal febbraio del 1979 e fino al periodo successivo, agli organizzatori, fino ai depistatori.

La chiave di volta è stato il lavoro fatto sugli atti del crac del Banco Ambrosiano e sul 'documento Bologna', sequestrato nel 1982 a Gelli. Il pizzino riportava l'intestazione 'Bologna - 525779 - X.S.', con il numero di un conto corrente aperto alla Ubs di Ginevra dal capo della P2. A questo c'è un riferimento in uno degli atti considerati più importanti dagli investigatori, il 'documento artigli'.

È un appunto per il ministro dell'Interno, classificato come riservatissimo, datato 15 ottobre 1987 e firmato dall'allora capo della polizia Vincenzo Parisi, dove si ricostruiva il colloquio tra il legale di Gelli, Fabio Dean, ricevuto nell'ufficio del direttore centrale della polizia di prevenzione Umberto Pierantoni.

"Se la vicenda viene esasperata e lo costringono necessariamente a tirare fuori gli artigli, allora quei pochi che ha, li tirerà fuori tutti", disse Dean, parlando del suo assistito, in quel momento in carcere e di lì a poco interrogato, anche sul 2 agosto 1980.

 


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