Captive state.

Fantascienza distopica e thriller raffinato vanno a braccetto in un film perfetto dal ritmo implacabile.

di EMILIANO BAGLIO 28/03/2019 ARTE E SPETTACOLO
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Diciamolo subito, Captive state è un film strepitoso.

Gli alieni hanno invaso la terra ma non c’è stata nessuna guerra. Semplicemente l’umanità ha capitolato dinnanzi alla loro potenza. Ora gli invasori governano il mondo e controllano l’intera popolazione attraverso microchip impiantati sottopelle. Tuttavia un manipolo di resistenti che agiscono nell’ombra è deciso ad accendere la scintilla della rivolta.

A capo di questo manipolo c’è Rafe Drummond (Jonathan Majors), che tutti credono morto da anni.

Suo fratello Gabriel (Ashton Sanders) però è ancora vivo e cerca disperatamente una facile quanto illusoria via di fuga alla triste realtà che è costretto a vivere.

A spiarlo c’è il poliziotto William Mulligan (John Goodman) convinto che la resistenza sia ancora attiva e che solo i buoni vecchi metodi investigativi possano portarlo ad annientarne i vertici.

Rupert Wyatt, con il suo film compie un’operazione raffinata ed oseremmo dire autoriale, che ha al tempo stesso un sapore antico ed un implacabile ritmo moderno.

La fantascienza distopica, in realtà, è solo una mano di vernice che nasconde l’anima di un thriller che prende le mosse dai grandi classici degli anni ’70 per aggiornarli.

Vengono naturalmente in mente titoli come I tre giorni del condor ma anche la tecnica del MacGuffin tipica del maestro Hitchcock.

Captive state infatti è innanzitutto la storia di un attentato, narrata come una spy story vecchio stile, con pochi fronzoli, pochi dialoghi e tanta azione.

Wyatt procede spedito come un treno lanciato a folle velocità, con una grande perizia tecnica, un’invidiabile senso del ritmo e la giusta colonna sonora.

Così lo spettatore si ritrova ben presto inviluppato in vortice di accadimenti che si accavallano l’uno sull’altro e con una miriade di personaggi definiti dalle azioni che compiono.

A noi sta ricomporre il puzzle che vorticosamente si dipana davanti ai nostri occhi senza un attimo di sosta, senza che vi sia il tempo per respirare o tirare le fila.

In questo senso Wyatt si comporta come un perfetto burattinaio che muove i fili in un continuo susseguirsi di intrighi e scoperte.

In realtà, come avremo modo di scoprire e come è già stato detto siamo dinnanzi ad un’opera che è un gigantesco MacGuffin.

Tutto ciò che vediamo è un pretesto, come ne I soliti sospetti il regista è una sorta di novello Keyser Söze che si sta divertendo con noi depistandoci, portandoci dove vuole lui, costruendo una realtà che sotto ne nasconde un’altra in un gioco di specchi che si svelerà solo alla fine.

E sì, forse, la rivelazione a sorpresa ed il completo capovolgimento di quanto visto sino a quel momento, si poteva anche intuire ma Wyatt sa come narrare una storia, dote rara nel cinema moderno, anche se, forse, questa storia l’abbiamo già vista tante altre volte sullo schermo.

Certo il suo treno alle volte deraglia, alcuni personaggi sono appena abbozzati ed ad un certo punto tutto rischia pericolosamente di sgonfiarsi ma il regista ha la capacità di rimettersi subito in carreggiata riuscendo nuovamente a stupirci.

In fondo non c’è nulla di veramente nuovo nel suo film, persino le ambientazioni sono simili a quelle di tanti altri film di fantascienza ed il suo cupo futuro ha un sapore a metà tra un film di guerra ambientato nell’epoca nazista e la descrizione di una qualsiasi dittatura.

Quello che fa veramente la differenza è che, finalmente, abbiamo a che fare con un film girato magnificamente in cui l’unica cosa che conta è l’azione nel suo implacabile incedere.

È questa che fa procedere la vicenda e che definisce i personaggi, tutto il resto è contorno.

Puro intrattenimento, forse, ma sicuramente di grande, grandissima classe per un film che non lascia scampo allo spettatore riuscendo continuamente a ricreare in lui un sano stupore infantile dinnanzi alle capacità visive e narrative del regista.

Poi chi vuole potrà vedere nel film anche una lettura politica, in quel muro che divide gli alieni dagli umani, in quel mondo in cui tutti sono controllati ed i poveri sono sempre più poveri ed i ricchi sempre più ricchi.

Persino in quel fiammifero che va acceso per dare fuoco alle polveri e far scoppiare la rivolta.

Per una volta a noi la lettura politica non convince del tutto.

Captive state è semplicemente la storia di un complotto, narrata con il ritmo dei film moderni e la complessità dei grandi thriller dei bei tempi andati.

A suo modo un piccolo grande classico che sarebbe un gran peccato perdersi.

 

EMILIANO BAGLIO

 


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