La favorita

Un affresco spietato del potere e delle sue perversioni nell'ennesimo meraviglioso film di Lanthimos.

di Emiliano Baglio 29/01/2019 ARTE E SPETTACOLO
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Gli uomini sono lontani al fronte.

A corte sono rimasti, per lo più, solo i politici e tra essi Sidney Godolphin (James Smith) a capo del governo e Samuel Masham (Joe Alwyn) a capo dell’opposizione.

I destini della corona in realtà si decidono altrove ovvero nella stanza della regina e più in particolare nel suo letto dove si alterneranno, durante il film, la Duchessa di Marlborough (Sarah interpretata da Rachel Weisz) e la Baronessa Masham (Abigail interpretata da Emma Stone).

La Regina Anna (alla quale presta il volto una strepitosa Olivia Colman)  è una donna malata. Affetta da gotta, costretta spesso su una sedia a rotelle, zoppa, brutta e grassa (e verso la fine del film anche affetta da una paresi) la sovrana ha l’animo distrutto dalla perdita dei suoi 17 figli, sostituiti con altrettanti conigli.

Di fatto esclusa dalla politica Anna passa le sue giornate solitarie giocando a carte ed ingozzandosi di dolci ed i dolori (fisici e psichici) che la tormentano la portano a repentini sbalzi di umore, sia quando un paggio ha, a suo dire, l’ardore di guardarla sia quando qualcosa o qualcuno le ricorda il suo dolore di madre mancata.

L’unico sollievo a tanta sofferenza è la compagnia della Duchessa di Marlborough, l’unica che abbia il coraggio di dirle in faccia la realtà ma anche colei che, di fatto, regge le sorti del regno e soprattutto stringe a sé i cordoni della borsa.

Sino a quando non arriverà sua cugina, la Baronessa Masham; una nobildonna decaduta (il padre l’ha venduta giocando a carte quando lei aveva 15 anni) che dalla posizione di sguattera nelle cucine della reggia è decisa a farsi strada con ogni mezzo per risalire la scala sociale.

La Favorita, il nuovo meraviglioso film di Yorgos Lanthimos, sembra confermare la teoria per la quale, in fondo, i grandi autori non fanno altro che offrire sempre nuove versioni della stessa opera.

Ancora una volta il regista greco ci presenta un universo a sé stante e chiuso in sé stesso, autoreferenziale e dai tratti concentrazionari in cui valgono regole diverse rispetto al resto del mondo.

Come sempre accade nei suoi film i rapporti di potere e le alchimie che sorreggono queste realtà, che hanno sempre tratti distopici anche quando, come in questo caso fanno riferimento a fatti storicamente veri, vengono messi in discussione dall’arrivo di un elemento perturbante esterno.

La favorita è dunque l’ennesima riflessione sul potere e su come lo si esercita e la feroce scalata sociale di Abigail non ha nulla da invidiare ai perversi rapporti che regolano il mondo moderno. Cambiano i tempi, ci dice Lanthimos ma le dinamiche di sopraffazione rimangono sempre le stesse.

Poco importa che stavolta siano le donne ad avere il centro della scena.

Gli uomini sono semplici e ridicole comparse. Imbellettati e truccati passano il loro tempo in corse delle oche e a lanciare arance contro l’adiposo corpo nudo di uno di essi e sono semplici mezzi da sposare per raggiungere quello certo status quo di fatto precluso alle donne.

Insomma non sono altro che strumenti nelle mani di tre donne, diverse tra loro, ma comunque divorate dall’ansia di esercitare il loro potere.

Anna, chiaramente, è l’elemento debole di questo triangolo, la donna fragile a cui la realtà sbatte sempre in faccia la sua natura di disabile, disperatamente bisognosa di amore.

Sarah, apparentemente, è colei che approfitta della situazione sebbene, verso la fine, sembri tenere realmente alla Sovrana.

Ed infine c’è la spietata Baronessa Masham, vera e propria arrampicatrice sociale che non si ferma dinnanzi a nulla.

Un affresco del potere mostrato nel suo volto spietato che lascia sul campo morti e feriti in un gioco al massacro senza vincitori né vinti in cui è chiaro il grido che, ancora una volta, Lanthimos lancia ed in cui è impossibile non pensare alla sua Grecia e più in generale all’Europa di oggi.

In questo quadro di spietato cinico realismo Lanthimos si muove da par suo consegnandoci l’ennesimo grandissimo film.

Luce naturale a disegnare splendide sequenze immerse nel buio ed illuminate da uniche tremolanti candele, grandangoli e fish eye che sembrano voler ingoiare, con la stessa voracità delle tre protagoniste, scene volutamente distorte e grottesche.

Senza dimentica tocchi di humor nero e lampi di assoluto genio come nel ballo tra Sarah e Robert, di fatto una scatenata danza rock trasposta nell’Inghilterra dell’epoca.

Sino a quella terribile inquadratura finale che dimostra, qualora ve ne fosse bisogno, la straordinaria capacità dell’autore di esprimere concetti attraverso le immagini.

Un’inquadratura che ristabilisce i veri rapporti di forza mentre i conigli si moltiplicano all’infinito come tanti figli mancati, come tanti sudditi o forse come tanti uomini regrediti ad uno stato di bestie e di schiavi nelle mani di un potere che mostra il suo volto sofferente ma anche la sua spietatezza.

Roba che ti viene voglia di applaudire mentre scorrono i titoli di coda.

 

EMILIANO BAGLIO


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