Okja. Favola che si trasforma in uno spietato atto di accusa al capitalismo e agli allevamenti intensivi

di Emiliano Baglio 17/07/2017 ARTE E SPETTACOLO
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C’era una volta un maiale gigante di nome Okja.

Potrebbe tranquillamente cominciare così il nuovo lungometraggio di Bong Joon-ho, come una favola perché, apparentemente, proprio di questo si tratta.

Okja, come forse qualcuno ricorda, è stato presentato in concorso all’ultimo festival del cinema di Cannes. Qui il presidente della giuria, il regista Pedro Almodovar, ha dato vita ad una polemica intorno al film perché prodotto da Netflix e quindi destinato ad essere distribuito solo ed esclusivamente su tale piattaforma, senza nessun approdo nelle tradizionali sale cinematografiche. Ora che il film è stato aggiunto al catalogo Netflix ciò che è interessante analizzare, piuttosto che l’anacronistica posizione di Almodovar, è quanto le modalità di produzione abbiano influenzato Bong Joon-ho.

Netflix sicuramente ha molto successo presso i cinefili (grazie ad una sempre crescente produzione di prodotti di altissima qualità) e presso gli appassionati di serie tv e tuttavia si rivolge innanzitutto al più ampio pubblico possibile, quello che la sera davanti al divano (o davanti ad un computer) sfoglia il vasto catalogo alla ricerca di prodotti di intrattenimento adatti magari a tutta la famiglia.

Forse proprio per soddisfare tale esigenza Okja si presenta sotto la forma di una favola, tuttavia nonostante l’aspetto esteriore ancora una volta il regista sudcoreano è riuscito a far sentire prepotentemente la propria presenza.

Al centro della storia c’è il maiale gigante che dà il titolo all’opera. L’animale da dieci anni vive felice nella Corea del Sud amorevolmente accudito da una bambina di nome Mija. In realtà però Okja è un esperimento portato avanti dalla Mirando, una multinazionale priva di scrupoli guidata da Lucy Mirando (Tilda Swinton). Ora la corporazione ha inviato il Dottor Wilcox (Jake Gyllenhaal) a recuperare la bestia per premiarla. In realtà tutta la cerimonia, così come lo stesso dottore, non sono altro che specchietti per le allodole creati apposta per ingannare i futuri consumatori mentre viene dato il via alla produzione in larga scala di alimenti derivati dai favolosi maiali giganti, frutto di esperimenti genetici e non di madre natura come narrato dalla Mirando.

Mija farà di tutto per riportare a casa il suo migliore amico.

Gli elementi della favola ci sono dunque tutti. Una bambina innocente, un delizioso amico animale ed una spietata multinazionale guidata da una perfida donna che sembra uscita da un cartone animato.

A condire il tutto l’astuto Frank Dawson (Giancarlo Esposito noto per Breaking Bad) che in realtà manovra Lucy e al momento giusto la sostituirà con l’odiata sorella Nancy (sempre la Swinton) ed un gruppo di ecoterroristi dal cuore puro, guidati da Paul Dano, dipinti con accenti di feroce satira come un gruppo di perfetti imbecilli.

Il regista in un simile scenario sembra pienamente a suo agio e può dare sfogo ad alcuni dei segni caratteristici che da sempre contraddistinguono il suo cinema.

L’esempio più lampante di tali capacità è la sequenza in cui Okja fugge in un centro commerciale.

Qui Bong Joon-ho ha mano libera nell’esibire il suo talento, costruendo una sequenza pirotecnica piena di continue invenzioni e di humor, nella quale le persone fuggono dal maiale ma trovano il modo di scattarsi un selfie ed gli ecoterroristi seminano i cattivi usando delle biglie e la stessa cacca del maiale come se fossimo in un film di comiche.

Accanto all’umorismo tipico del regista non mancano le terribili frecciate al sistema capitalistico con forse anche qualche riferimento alle proprie vicende personali.

L’intera missione dei terroristi si regge sul consenso di Mija che però parla solo il coreano. Ecco allora che l’incaricato di tradurre in inglese ciò che dice la bimba, mente ai suoi compagni di avventura facendogli credere che Mija sia d’accordo con loro. Le differenze linguistiche vengono quindi usate per ingannare il prossimo facendogli fare ciò che si vuole. Viene spontaneo chiedersi se anche al regista non siano capitati incidenti simili una volta giunto in America e se questa non sia la sua piccola vendetta nei confronti delle restrizioni subite.

Ma laddove Bong Joon-ho si rivela completamente è nell’ultima parte del film, quando affronta di petto l’orrore nascosto della Miranda e conduce lo spettatore all’interno dei mattatoi della società, tra esperimenti falliti che hanno dato vita ad atrocità sino alla sequenza in cui Okja viene ingravidata tramite un vero e proprio stupro al quale seguono alcune sevizie.

A questo punto la dolce favola che ci ha fatto persino ridere e sognare mostra il suo vero volto trasformandosi in un atto di accusa verso il capitalismo perfettamente incarnato da Nancy che accetta un maiale d’oro in cambio di Okja. Ovviamente, come si addice ad una favola (per quanto nerissima) le due eroine del film si salvano ma il regista, nonostante sia stato tacciato di buonismo, non concede spazio ad un vero e proprio lieto finale. In fondo a Mija importa solo della sua amica che porta via attraverso gli sterminati allevamenti dove sono stipati gli altri animali con un chiaro parallelismo con i campi di concentramento nazisti in una scena che lacera il cuore e fa autenticamente male. Mija siamo tutti noi che ci preoccupiamo tanto dei nostri animaletti domestici mentre intorno a noi vengono macellati milioni di animali costretti a vivere nella sofferenza e nel dolore, siamo noi che cerchiamo cibo biologico ad impatto zero equo e solidale senza starci a preoccupare se chi lo produce sia un povero agricoltore o una spietata multinazionale.


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