Primo Maggio. Quel che resta del Lavoro

di Massimo Lorito 01/05/2016 CULTURA E SOCIETÀ
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Primo Maggio 2016. I sindacati confederali sfilano a Genova, città che ha conosciuto la storia delle lotte sindacali, delle trasformazioni del mondo del lavoro, delle infiltrazioni del Terrorismo nel tessuto dei lavoratori. Chiedono, come ogni Primo maggio che il governo, qualunque governo sia insediato a Palazzo Chigi, si occupi del lavoro, sostenendo che il vero problema, la questione principale per gli italiani è esattamente questa, il lavoro.

 E così nelle principali città da Milano a Napoli, da Roma dove si svolge il tradizionale concertone di Piazza San Giovanni, fino a Palermo, dove talvolta un posto di lavoro è più irreale di Scilla e Cariddi che danzano sullo Stretto. E’ difficile non essere d’accordo con i sindacati quando dicono che la questione più importante è il lavoro. Lo si capisce leggendo le cifre di nostri connazionali che negli ultimi cinque anni hanno lasciato la Penisola per i Paesi europei proprio per un posto di lavoro. Almeno 300mila, soprattutto giovani, fino ai 40 anni, una emigrazione da far impallidire i numeri dei profughi che dal nord Africa e al vicino Oriente sono arrivati nel frattempo da noi.

 Il lavoro, sembra un concetto così presente nella quotidianità delle vite di tutti, ma forse la giornata del Primo maggio, se ancora serve a qualcosa, dovrebbe proprio farci riflettere su che cosa sia oggi il lavoro.

I tempi sono inesorabilmente cambiati. Un secolo e mezzo fa, sulla spinta delle idee socialiste e della Prima e della Seconda Internazionale, migliaia di lavoratori scendevano in piazza e a costo della vita, reclamavano condizioni di lavoro più giuste, salari e diritti adeguati, chiedevano di partecipare attivamente ai processi produttivi. Da quei giorni acqua ne è passata sotto i ponti. Si sono costruite dottrine e teorie, la sociologia del lavoro, il diritto del lavoro, la filosofia del lavoro, la psicologia del lavoro. Le stesse istituzioni statali sono state spesso modellate sui temi del mondo del lavoro, si è data la possibilità alle persone di farsi cittadini e di essere lavoratori.

Le relazioni all’interno delle società, quelle occidentali come quelle non occidentali, si sono costituite e modellate sui rapporti di lavoro, l’identità dei singoli è derivata dal mestiere svolto, dagli studi fatti per essere un lavoratore.

I tempi sono cambiati. La difficoltà di tutti noi dinanzi al lavoro non nasce solo dall’immediata consapevolezza di quanto sia difficile oggi avere un lavoro dignitoso, con diritti e doveri precisi, con modalità ispirate all’idea del giusto contributo che ciascuno deve dare alla società, con regole che non cambiano come cambiano i governi, con dinamiche comprensibili a cui ogni lavoratore può dare il proprio contributo. La difficoltà di relazionarsi e vivere il lavoro come una parte essenziale delle nostre vite, facendo per così dire pace con esso, nasce anche dal mutamento del concetto stesso di lavoro. Un mutamento che è la diretta conseguenza dei processi di de-culturalizzazione e de-concettualizzazione del lavoro. Cosa significa? Vuol dire che il lavoro separato dalle dinamiche sociali in cui storicamente è stato immerso e reso un esclusivo ambito dell’economia, o peggio dei rapporti finanziari tra soggetti, giustamente definiti “liquidi”, multinazionali, centri finanziari, banche ecc, perde quel suo valore tradizionale, così come dalla seconda rivoluzione industriale lo abbiamo conosciuto, di fattore di promozione, sviluppo e interazione sociale. Il lavoro oggi appare, soprattutto per le nuove generazioni e, purtroppo, per le future, come qualcosa di alieno, talvolta come un nemico con cui ci si deve confrontare e scontrare perché ne avvertiamo il distacco dalla sua funzione tradizionale. Se si lavora quotidianamente con impegno e dedizione ma non si vedono i frutti del proprio lavoro, ecco che il legame che unisce la sfera dell’impegno, la sfera del dovere, la sfera emozionale del lavoratore con l’idea stessa del lavoro, va a sfaldarsi con il risultato di allontanare inesorabilmente lavoro e lavoratore. E perché non si vedono i frutti nelle società globalizzate di oggi? Perché il “lavoratore globalizzato” conosce, perché ha a disposizione mezzi informativi formidabili, molte dinamiche, ma allo stesso tempo ne avverte l’impossibilità di agire e influenzare, con il proprio lavoro, quelle dinamiche. In una parola si è creata un’alienazione per nuova, per certi versi più terribile di quella descritta da Marx. L’inutilità del proprio ruolo di lavoratore si traduce nella difficoltà di accedere ad un welfare equo e duraturo, non si ormai quando e come si andrà in pensione. Si traduce nell’impossibilità di contribuire, con il proprio lavoro, a migliorare ciò che si ritiene debba essere migliorato nella società in cui si vive e si opera. Si traduce nell’impotenza dinanzi ai flussi economici globali, si traduce nell’insicurezza della qualità della vita, dell’ambiente.

Motivi questi, e naturalmente altri ve ne sono, che hanno reciso negli ultimi vent’anni, il cordono ombelicale che per due secoli ha unito lavoratore e lavoro. Oggi il lavoro è il nuovo nemico del lavoratore. Lavoratori contro il proprio lavoro, lavoratori insoddisfatti, demotivati, lavoratori giovani contro lavoratori anziani, lavoratori pubblici contro lavoratori privati, lavoratori interinali contro lavoratori con contratti “più regolari”, lavoratori che non vanno in pensione contro quelli che ci riescono ad andare. Un quadro di divisioni e parcellizzazioni che è il frutto avvelenato della separazione del lavoro e della sua funzione sociale dal corpo sociale stesso. Tutto questo ha reso, ad esempio, il cosiddetto mercato del lavoro, luogo ormai solo virtuale e non più simbolico, una giungla dove solo i più astuti e furbi riescono a cavarsela.

 Tra gli esiti nefasti di questo processo si possono citare alcune dinamiche che tutti i giorni sono a portata di mano. Viviamo in società nelle quali spesso l’obiettivo principale del lavoratore sembra esclusivamente quello di riuscire a liberarsi dalle “catene del lavoro”. Spopolano i Gratta e vinci che inducono a ricercare la felicità della perenne vacanza. Sono aumentati a dismisura le cause di conflitto tra lavoratori e i propri datori di lavoro, soprattutto pubblici, perché si è dileguato quel dovere di partecipare alla crescita. Non se ne vedono né intuiscono i contorni.

 Finché dunque non si recupererà la funzione più connotativa del lavoro, oggi smarrita nell’oceano infido della globalizzazione e della finanziarizzazione della vita, ci sarà sempre meno da festeggiare ad ogni Primo Maggio.

 

 

 



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