Old

Shyamalan vorrebbe costruire un film ambizioso introno a soggetti importanti ma i risultati sono al limite del disastroso.

di EMILIANO BAGLIO 31/07/2021 ARTE E SPETTACOLO
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Probabilmente mai come in Old, il cinema di M. Night Shyamalan, ha pagato lo scotto dell’abisso che separa le intenzioni dal risultato finale.

La nuova fatica del regista ha ambizioni altissime e vorrebbe affrontare temi cruciali ma, purtroppo, l’esito lascia più dubbi che certezze.

Probabilmente è il soggetto di fondo stesso, tratto dalla graphic novel Castello di sabbia di Pierre-Oscar Levy e Frederick Peeters (Coconico Press), a presentare difficoltà di fondo.

Il paradosso temporale che è alla base di tutta la narrazione, forse, era appunto più adatto alla pagina disegnata piuttosto che ad una pellicola sebbene di 108 minuti di durata.

In Old, invece, proprio a causa del sopracitato paradosso, gli avvenimenti si susseguono ad un ritmo tropo rapido perché i personaggi abbiano il tempo di assimilarli.

L’altro grande limite riguarda i personaggi stessi ed una recitazione spesso non adeguata.

Alcuni non si capisce proprio che funzione abbiano, visto che il loro ruolo è pressoché nullo, come nel caso di Agnes (Kathleen Chalfant).
Altri hanno una caratterizzazione nulla e rischiano di apparire insensati e ridicoli nelle loro azioni, ed è il caso di Sedan (Aaron Pierre).

Altri infine sembrano caratterizzati più che altro dal lavoro che compiono nella vita di tutti i giorni, fondamentale per far andare avanti la trama in alcuni momenti fondamentali.
Ecco allora che abbiamo rispettivamente il medico Charles (Rufus Sewell) e la coppia formata dalla psicologa Patricia (Nikki Amuka-Bird) e dall’infermiere Jarin (Ken Leung).

Per tacere di momenti ridicoli come quello in cui Trent Cappa va in giro a chiedere ad alcuni ospiti del resort dove è ambientato il prologo che mestiere facciano ed incontra, guarda caso, un poliziotto, informazione che si rivelerà fondamentale nel finale.

Alla fine, l’unico personaggio che funziona e che risulta persino più interessante dei veri protagonisti della vicenda è quello di Crystal (Abbet Lee).

La donna, vedrà progressivamente svanire la giovinezza e quella bellezza da cui è ossessionata ed il suo corpo sarà vittima della malattia dalla quale è affetta.

Finirà così per aggirarsi come un fantasma, prigioniero del dolore e soprattutto del rimpianto per ciò che avrebbe potuto essere la sua vita, struggendosi al ricordo di Giuseppe, il suo amore giovanile al quale ha rinunciato perché non poteva offrirgli nulla di concreto.

Tuttavia, il nucleo fondante del film, come spesso accade nelle opere di Shyamalan, è la famiglia divisa in due linee di sguardo e di osservazione.

Da una parte ci sono Guy (Gael García Bernal) e sua moglie Prisca (Vicky Krieps che recita così male da pensare che abbia difficoltà con la lingua inglese), coppia in crisi che si è regalata un ultimo viaggio insieme prima della separazione.

Dall’altra i loro due figli; Trent (interpretato da Luca Faustino Rodriguez, Alex Wolff ed Emun Elliott) e Maddox (cui prestano il volto Alexa Swinton, Thomasin McKenzie ed Embeth Davidtz).

Attraverso questa famiglia il regista affronta il primo grande tema del suo ultimo film, ovvero lo scorrere del tempo.

L’esperienza che vivranno Guy e Prisca diventerà l’occasione attraverso la quale rivivere la loro intera relazione sotto una nuova luce, sino a quando, alla fine della giornata, le piccole incomprensioni di tutti i giorni, i problemi di coppia e persino i tradimenti appariranno come altrettanti momenti privi di significato rispetto all’affrontare insieme un intero percorso di vita.

Ancora più interessante è il percorso affrontato dai loro figli, soprattutto per quanto riguarda il punto di vista attraverso il quale viene mostrato.

Forse proprio il punto di vista è l’altro tema fondamentale dell’intero film.

Trent e Maddox, ma anche Kara (Kyle Bailey, Mikaya Fisher ed Eliza Scanlen) ed i loro cambiamenti vengono sempre rappresentati attraverso lo sguardo degli adulti nei loro confronti e non a caso le mutazioni cui sono sottoposti avvengono praticamente sempre fuori campo.

Tuttavia, proprio nella loro storia, il film dimostra la sua fragilità.

Appare infatti impossibile comprimere un’intera vita in così poco tempo, nonostante alcuni momenti particolarmente riusciti, primo tra tutti quel castello di sabbia che Trent e Maddox costruiscono alla fine, già grandi eppure ancora eterni bambini dentro.

Il che porterebbe pure ad affrontare il tema del passaggio dall’infanzia all’adolescenza e la capacità di preservare sempre dentro di noi il nostro sguardo infantile, altra ossessione del regista.

Il risultato è che spesso accadono cose prive di senso, la trama gira a vuoto su sé stessa ed i momenti francamente ridicoli o assurdi abbondano complici dei buchi di sceneggiatura che gridano vendetta.

Tra tumori estratti a mani nude e coltelli avvelenati perché arrugginiti il rischio di cadere nella comicità involontaria è sempre dietro l’angolo.

Tuttavia ci sono altri due temi, altrettanto importanti, che l’autore mette sul piatto.

Il primo compare nell’immancabile finale a sorpresa, che in realtà finisce con il durare troppo ed apparire posticcio.

Stavolta vengono chiamate in causa addirittura le grandi questioni etiche legate a quali siano i limiti della scienza, tematica attuale più che mai, ma affrontata troppo superficialmente e con l’intento più di sorprendere che di affrontare un discorso serio su di essa.

Molto più interessante, soprattutto se prendiamo Old come una riflessione sullo sguardo, il ruolo che Shyamalan riserva a sé stesso, ovvero quello dell’osservatore di ciò che accade ai personaggi della vicenda.

In sostanza il regista mette in scena sé stesso, lo sguardo del suo personaggio che spia dall’alto si identifica in pieno con il ruolo di demiurgo/osservatore/direttore che è proprio del regista e della macchina da presa; un punto di vista onnisciente, quasi divino, al di fuori della vicenda e pure al tempo stesso responsabile di ciò che accade in essa, abile orchestratore e direttore sia dei fili che muovono i suoi personaggi marionette, quanto della stessa visione di noi spettatori.

Una vera e propria mise en abyme che potrebbe aprire la porta ad una riflessione intorno al ruolo di Shyamalan, al suo modo di fare cinema e più in generale alla posizione e alle responsabilità del regista nelle scelte di messa in scena che opera.

Peccato che, come si diceva in apertura, tutte queste suggestioni si perdano in un film che non riesce ad essere all’altezza delle sue stesse ambizioni.

EMILIANO BAGLIO


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