Siria. Da dieci anni il Paese devastato dalla guerra civile

di redazione 16/03/2021 NON SOLO OCCIDENTE
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Le prime dimostrazioni pubbliche contro il governo centrale della Repubblica araba di Siria, dieci anni fa, davano inconsapevolmente il via ad una delle guerre civili e delle crisi umanitarie più drammatiche della recente storia dell'umanità. Le manifestazioni del 15 marzo 2011 sono nate, la prima nella città di Daraa, nell'ampio contesto delle primavere arabe, quando una parte della popolazione siriana si è sollevata contro la famiglia Assad e il governo seguendo l'esempio delle proteste in Tunisia, Egitto e dell'inizio della ribellione in Libia.

 

La durissima repressione delle manifestazioni, le migliaia di arresti, le torture e le morti degli arrestati, nel tentativo del governo di riportare la calma e sedare le rivolte, non scoraggiarono i manifestanti e i critici del regime, anzi dando loro ancora più forza e portando alla nascita di numerose forme di resistenza. Oggi, la Siria è un Paese frammentato e completamente da ricostruire, dilaniato da una guerra civile ancora in corso divenuta una guerra per procura di interessi internazionali diversi, con innumerevoli attori sul campo e la peggiore crisi umanitaria dal secondo dopoguerra.

Il regime di Assad controlla circa i due terzi del paese: molto di più di quanto non facesse alla fine del 2015, quando sull’orlo di essere sconfitto dai ribelli fu salvato dall’intervento militare russo; ma molto meno di quanto controllasse all’inizio della guerra. Per Assad però il problema non è solo quello di avere perso dei grossi pezzi di territorio, finiti sotto il controllo di forze rivali.

Anzitutto dire che Assad “controlla” i territori indicati nella mappa in rosso è sovrastimare la forza del suo regime.

La capacità del governo di esercitare potere passa in molte zone dalla presenza dei soldati russi e delle milizie sciite appoggiate dall’Iran, le quali hanno combattuto a fianco di Assad durante la guerra e che oggi presidiano per lo più i confini esterni dei territori del regime. Non sono solo gli alleati che fanno il bello e il cattivo tempo nelle aree controllate da Assad: negli ultimi anni Israele ha compiuto diversi bombardamenti in Siria contro obiettivi iraniani o legati al gruppo radicale libanese Hezbollah, appoggiato dall’Iran e considerato dal governo israeliano una grossa minaccia alla propria sicurezza nazionale. Alla fine di febbraio gli Stati Uniti hanno compiuto un attacco aereo in territorio siriano, vicino al confine con l’Iraq, per colpire le due milizie sciite filoiraniane Kataib Hezbollah e Kataib Sayyid al-Shuhada in risposta a un precedente attacco diretto contro una base militare di Erbil, nel Kurdistan Iracheno, che ospita truppe statunitensi.

All’interno dei territori controllati da Assad, inoltre, le politiche settarie e le tensioni tra vari gruppi ed etnie sono diventate enormi, ha scritto tra gli altri l’Economist: «Le tribù druse nel sud, quelle arabe a est e persino la setta alauita di Assad sulla costa si arrangiano sempre più da sole. Gli scontri tra gruppi sono frequenti. “Se un alauita viene qui disarmato e solo verrà ucciso”, ha detto un anziano della comunità araba di Deir Ezzor, nell’est della Siria».

La debolezza del regime è enorme, e dipende in buona parte da una terribile crisi economica che tra le altre cose ha provocato un rapido aumento dei prezzi di beni essenziali e il crollo del valore della moneta. «I siriani che una volta erano considerati classe media oggi sono diventati poveri», ha raccontato di recente il New York Times.

Lo stato siriano non ha più soldi a causa della guerra, della corruzione, delle sanzioni statunitensi, del collasso delle banche libanesi dove molti siriani ricchi tenevano i loro risparmi, delle altrettante difficoltà economiche di Russia e Iran, e certamente delle conseguenze della pandemia da coronavirus. La pandemia ha messo sotto pressione un sistema sanitario già uscito devastato dalla guerra – solo metà degli ospedali del paese funziona regolarmente – e ha portato i vari centri di potere siriani a negoziare separatamente l’acquisto di dosi di vaccino.

Come detto, comunque, la Siria di Assad non è l’unica Siria che esiste oggi. Il nordest del paese è controllato dai curdi, che da tempo hanno messo in piedi un sistema di autogoverno piuttosto efficiente, che per molti aspetti sembra funzionare meglio di quello di Assad, anche se non si può considerare del tutto libero e democratico. I curdi hanno ottenuto grande legittimità internazionale per avere combattuto la guerra contro l’ISIS insieme agli Stati Uniti, tramite una coalizione di forze che includeva anche gruppi arabi. Oggi in queste zone della Siria la lingua curda è preferita all’arabo e la popolazione sta un po’ meglio che altrove, grazie soprattutto alla protezione americana e alla presenza di petrolio da sfruttare.

Durante le guerra siriana, i curdi si sono dovuti guardare soprattutto dagli attacchi della Turchia, che li ha accusati di essere la stessa cosa del PKK (Partito dei Lavoratori), gruppo curdo turco che per decenni ha combattuto contro il governo di Ankara per ottenere l’indipendenza.

Nel 2016 la Turchia ha iniziato una serie di incursioni in Siria in funzione anti-curda, anche grazie all’aiuto di alcuni gruppi ribelli arabi sunniti che hanno rinunciato a combattere contro Assad principalmente per soldi. I territori conquistati dalla Turchia, che si trovano nel nord della Siria, oggi sono abitati per lo più da arabi sunniti, mentre i curdi se ne sono andati per paura di subire violenze. Qui non circola il dollaro americano, come nelle zone curde, ma la lira turca, e i funzionari locali sono pagati direttamente dal governo turco. Questi territori sono collegati alla rete elettrica presente nel sud della Turchia.


Un Paese che negli ultimi 10 anni è passato attraverso i bombardamenti e il radicalismo religioso, il conflitto continuo e la speranza della ricostruzione, dilaniato non solo nell'economia e nell'urbanistica ma anche dal punto di vista della società. A partire dal 2014 un'area vastissima a cavallo tra Siria e Iraq è stata controllata, militarmente e politicamente, dallo Stato Islamico, che ha istituito un califfato con capitale nella città di Raqqa.

Attualmente l'Unhcr, l'agenzia Onu per i rifugiati, stima che ci siano 5,5 milioni di profughi siriani in giro per il mondo, la maggior parte in Turchia, e un numero ancora di più alto di sfollati interni al Paese levantino. Un numero altissimo di persone, perlopiù con un alto tasso di scolarizzazione, che ha acceso una crisi nuova per l'Europa, quella dei migranti. Crisi aggravatasi con l'aggravarsi anche di altri scenari, in particolare nell'Africa subsahariana. Il decimo anniversario della guerra civile siriana vede Bashar al-Assad ancora saldamente al potere, afflitto dal Covid-19 (attualmente è in isolamento con la moglie nel palazzo presidenziale a Damasco), e il partito Baath ancora preponderante nella vita politica della Siria.

Bashar Assad ha vinto la «guerra internazionale» – come gli piace spesso definirla – contro il suo Paese rimanendo in sella. La prima «guerra per procura » moderna.

Ha sconfitto – per modo di dire – anche il Covid-19, «contratto in modo lieve » insieme alla moglie Asma, e ora si prepara a correre per un nuovo mandato alle presidenziali del prossimo giugno, beffandosi dell’ultima risoluzione del Parlamento Europeo che ha considerato tali elezioni prive «di qualsiasi credibilità agli occhi della comunità internazionale nel contesto attuale». Ma non è sicuro che Assad possa vincere la battaglia dell’unità della Siria, né quella per la ricostruzione. Oggi, le forze filo- governative controllano il 65 per cento del territorio nazionale, mentre è per il 25 per cento sotto il comando delle milizie curdo-arabe delle Forze siriane democratiche (Fsd) e per il 10 per cento sotto il controllo della Turchia oppure delle formazioni ribelli concentrate ormai nella sola provincia nordoccidentale di Idlib.

È inutile aggiungere che, in molte aree governative, sono i militari di Mosca o i miliziani reclutati da Teheran a dettare le regole del gioco, mentre in quelle controllate dalle opposizioni si moltiplicano le basi americane e le postazioni turche. Il destino della Siria, insomma, si decide ormai altrove, come dimostra il vertice che ha riunito giovedì a Doha i ministri degli Esteri di Russia, Turchia e Qatar. E con una sovranità ridotta, come indica il raid aereo compiuto dal nuovo presidente americano Biden nella parte orientale del Paese contro le milizie irachene filo-Teheran. In questo cupo quadro assumono un importante valore gli sforzi internazionali tesi a lottare contro l’impunità dei responsabili dei tanti orrori commessi in questi dieci anni.

Un tribunale tedesco ha condannato, tre settimane fa, un colonnello dei servizi segreti siriani a quattro anni e sei mesi «per favoreggiamento di crimini contro l’umanità sotto forma di tortura e privazione della libertà». Una sentenza definita storica dagli attivisti per i diritti umani, che sperano crei un precedente per altri casi, anche ai livelli più alti, contro chi ha calpestato sistematicamente i diritti dei siriani.



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