Lo Statuto dei lavoratori compie 50 anni. I Diritti entrarono nelle fabbriche

di redazione 20/05/2020 CULTURA E SOCIETÀ
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Difeso ad oltranza dalle forze politiche più di sinistra, emblema delle lotte dei lavoratori degli anni Settanta, accusato di aver ostacolato nel tempo l'accesso al mondo del lavoro per la sua eccessiva rigidità, stravolto dal Jobs Act del governo Renzi, poi smussato dall'esecutivo giallo-verde a inizio legislatura lo Statuto dei Lavoratori compie 50 anni. Mezzo secolo di storia del lavoro di questo paese tra indubbie conquiste e polemiche sull'adeguatezza o meno ai ritmi veloci del cambiamento. E' stato istituito quando il lavoro da tutelare era in fabbrica e non si poteva certo immaginare l'arrivo dei co.co.co, dei riders e dopo l'arrivo del Covid-19 dello smart working di massa.

Il primo a parlarne e a immaginare uno “Statuto dei diritti” fu, nel 1952, il segretario della Cgil, Giuseppe Di Vittorio, di cui, non casualmente, Giacomo Brodolini fu vicesegretario. Di Vittorio parla all’inizio degli anni 50 quando ancora la reazione industriale non si è manifestata del tutto con la forza dei reparti confino o dell’emarginazione della Cgil in Fiat. Solo l’inizio degli anni 60 e con l’avvento del centrosinistra quelle idee sono riabilitate. 

Quando il Psi nel 1963 entra direttamente nel governo guidato da Aldo Moro, il segretario socialista Pietro Nenni riprende la bandiera dello Statuto anche in competizione con il Pci, e cerca di affermare così quello che Moro chiama nel suo discorso alla Camera “lo spirito dei tempi”. Il presidente della Dc, nel suo discorso di insediamento, esporrà “il proposito di definire, sentite le organizzazioni sindacali , uno statuto dei diritti dei lavoratori al fine di garantire dignità, libertà e sicurezza nei luoghi di lavoro”.

Come ricorda Ilaria Romeo, dell’Archivio storico della Cgil, “nel febbraio 1964 la segreteria della Cgil formalizza con una lettera a Nenni non solo il proprio giudizio positivo sullo Statuto, ma ribadisce la richiesta che la legge garantisca i diritti costituzionali dei lavoratori”. Gino Giugni entra a far parte della Commissione nominata dal ministro del Lavoro Bosco per predisporre un progetto di legge, anche se lo stesso Bosco, un dc, è contrario al progetto. Ma la vita del centrosinistra sotto Moro è travagliata per motivi più gravi. Nel 1964 si manifesta il “piano Solo”, pulsioni golpiste che fanno riferimento addirittura al presidente della Repubblica, Antonio Segni. Non è tempo per una misura di grande apertura al mondo del lavoro e il progetto si inabissa. 

Nel Programma di sviluppo economico per il quinquennio 1965-1970, ricorda ancora Romeo, il governo ribadisce l’impegno per uno Statuto dei lavoratori. Pci e Psiup (scissione di sinistra del Psi al momento in cui questo entra al governo con Moro) presentano alla Camera due proposte parallele e il 4 gennaio 1969 il ministro Brodolini annuncia un disegno di legge. Gino Giugni presiederà una Commissione con l’incarico di elaborare in tempi brevi la proposta da sottoporre alle organizzazioni sindacali. Poi l’ex sindacalista della Cgil Brodolini, poco prima di morire, lascerà il posto di ministro all’ex sindacalista della Cisl, il dc Carlo Donat-Cattin: la legge andrà avanti.

Nel frattempo c’è stata “l’irruzione delle masse”, è scoppiato il ’68, si prepara l’autunno caldo e la fase di grande rivolgimento della storia italiana. Sarà il segretario della Cgil, Luciano Lama, nel corso del 1970 a ricordarlo: “Lo Statuto dei diritti è frutto della politica unitaria e delle lotte sindacali: lo strumento non poteva che essere una legge, ma la matrice che l’ha prodotta e la forza che l’ha voluta è rappresentata dal movimento dei lavoratori”.

Lo ricordano i deputati del Pci in aula, durante l’approvazione del testo: saranno le lotte sindacali del “biennio rosso” a convincere che una regolamentazione della vita sindacale in fabbrica è necessaria. E che, in realtà, conviene anche ai “padroni”, come il Pci chiamava allora gli imprenditori.

In ogni caso, la Costituzione entra materialmente nelle fabbriche, si sanciscono diritti essenziali come quello di opinione, di libertà di riunione, di non essere spiati o vigilati impropriamente, di non essere licenziati arbitrariamente. Si ribadisce il diritto alla salute in fabbrica o quello di mantenere la mansione acquisita. All’articolo 9 si introduce il diritto della salute e della sicurezza in fabbrica, con l’articolo 19 si ufficializzano le Rappresentanze sindacali e si garantiscono vari diritti come quello di assemblea, di referendum, i permessi retribuiti, il diritto di affissione, alle trattenute sindacali, all’utilizzo di locali per l’attività sindacale. L’articolo 28 rende giuridicamente nulli gli atti, come i licenziamenti o altro, “diretti a impedire o limitare l’esercizio della libertà e della attività sindacale nonché del diritto di sciopero”.

Che sia stata la Costituzione a entrare in fabbrica è confermato dalla serie di ricorsi giudiziari vittoriosi contro le varie manomissioni legislative battute invocando la Carta costituzionale. Che una sinistra pseudo-moderna abbia voluto invocare la cancellazione di quella straordinaria riforma si spiega con la cecità tracotante oppure con la connivenza. Resta che quella stagione, e quella riforma, hanno costituito un’anima di ferro del progressismo italiano. Un utile esempio per chi, in tempi di grande ricostruzione come quelli attuali, volesse dotarsi di visioni e orizzonti più robusti.

    Aspettative sindacali, divieto di riprese senza il consenso dei lavoratori e di accertamenti sanitari direttamente da parte aziendale, libertà di opinione, divieto di demansionamento e soprattutto diritto al reintegro nel posto di lavoro nel caso di licenziamento giudicato illegittimo: queste erano le principali regole introdotte dalla legge 20 maggio 1970, numero 300. Lo Statuto (41 articoli divisi in sei titoli) fu messo a punto da una commissione di esperti presieduta da quello che è considerato il padre della riforma, Gino Giugni. Insediata nel 1969 dall'allora ministro del Lavoro Giacomo Brodolini. Alla morte di Brodolini nel luglio 1969, la commissione fu confermata dal nuovo ministro del lavoro, Carlo Donat Cattin. La legge 20 maggio 1970, intitolata ''norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento'', fu approvata con l'astensione del Pci.
    Alcune delle norme (come quelle sul collocamento inserite con l'articolo 33, scritte quando in azienda si entrava soprattutto attraverso una richiesta numerica) sono state le prime ad essere superate, ma lo Statuto ha resistito comunque negli anni soprattutto nella parte sulla libertà sindacale e sulla reintegrazione nel posto di lavoro. Per l'abrogazione della soglia dei 15 dipendenti per il diritto al reintegro in caso di licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo (le cui regole sono definite nella legge 604 del 1966 a cui lo Statuto rinvia) c'è stata una lunga battaglia condotta dagli industriali quasi venti anni fa, prima di un referendum di Rifondazione comunista al contrario sull'estensione dell'articolo 18.
    "Battersi per ottenere un nuovo statuto dei diritti dei lavoratori vuol dire battersi anche per un sistema universale di tutele", aveva sottolineato il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, intervenendo con un video-messaggio in questa epoca di comizi e manifestazioni in streaming alla diretta organizzata dalla Cgil Puglia in occasione del Primo maggio. "Quest'anno - aveva messo in evidenza Landini - saranno i cinquant'anni dello Statuto dei lavoratori e avvengono nel pieno della pandemia ma anche nel pieno di una precarietà del lavoro e dei diritti che non ha precedenti. Quello che sta emergendo è che questo virus ha fatto venire a galla quelle che sono le fragilità del nostro sistema. In realtà noi in Italia non abbiamo un sistema universale di tutele per i lavoratori e per le lavoratrici". 



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