Il Coronavirus non è una livella. La pandemia prolifera sulle ingiustizie sociali

di M.L 13/04/2020 CULTURA E SOCIETÀ
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In Italia le ingiustizie legate al Coronavirus sono state finore segnalate come quelle essenzialmente legate alla possibilità di farsi il tampone oppure no. Ci sono stati medici di base morti a cui non sono stati fatti i tamponi dopo giorni di febbre alta e magari di servizio, e vip di vario genere che ai primi sintomi hanno avuto immediatamente a casa il personale pronto a sottoporgli il tampone.

Altre ingiustizie arriveranno o sono già arrivate assieme al virus e riguardano i soldi, quelli nelle tasche degli italiani, ma questo si capirà meglio nei prossimi mesi. In pochi notano che se ti ammali in regioni come la Toscana e l’Emilia Romagna puoi più facilmente cavartela rispetto alle Marche o in Calabria. Questioni di servizio sanitario suddiviso per regioni, questioni legate agli investimenti e all’organizzazione, questioni correlate ad una pessima gestione di quel federalismo regionale che in Italia vuol dire, appunto, diseguaglianze del welfare. Prepararsi a future pandemie vuol dire cominciare prima di tutto a ripensare questo sistema inefficace e ingiusto.

Nel mondo che conta già 110 mila vittime, si osservano enormi ingiustizie per i contagi e i morti. Basta andare oltre Oceano Atlantico e il caso degli Stati Uniti appare tragicamente evidente. Con un presidente che per settimane ha minimizzato per poi annunciare impossibili “immunità di gregge”, oggi 13 aprile 2020, nella Repubblica federale i morti sono più di ventimila e oltre mezzo milione i contagiati.

Ai primi di aprile le immagini delle fosse comuni scavate ai marigini del Bronx  a New York hanno ricordato a tutti che la nazione più potente al mondo è anche, forse, quella dove le ingiustizie sociali sono più nette.

La “livella” sociale delle epidemie non è mai stata una verità scientifica. Certo le pandemie non guardano in faccia a nessuno, ma se sei benestante, abiti in luoghi dove puoi accedere a buoni servizi sanitari, condizioni igeniche e alimentari discrete, allora hai certamente più possibilità di salvarti. Questo vale abbastanza per un Paese come l’Italia, moltissimo per uno come gli Stati Uniti.

Negli Usa i neri muoiono più dei bianchi, molto di più. Anche gli ispanici o in generale tutti gli abitanti dei ghetti, anche i bianchi, o delle periferie disastrate non se la cavano facilmente alle prese con il Coronavirus.

E’ un fenomeno ormai acclarato tanto da indurre cinque parlamentari tra cui l’ex candidata alle primarie dei Democratici Elizabeth Warren, a richiedere ufficialmente ai Centers for Disease Control and Prevention (i famosi CDC), di raccogliere dati sull’appartenenza etnica dei contagiati. Per ora, come riportato recentemente dal Post, sono solo tre gli Stati ad aver pubblicato statistiche a riguardo, e i numeri sono eloquenti.

In Illinois lo stato di Chicago, la terza città più popolosa degli Stati Uniti, il 14 per cento della popolazione è nera, il 29 per cento dei contagiati è afroamericano, ma la percentuale di neri morti a causa del virus sale al 42 per cento. Stesse percentuali all’incirca per Michigan e North Carolina.

Negli Stati Uniti il sistema di assistenza si regge sulle assicurazioni private. Esistono due programmi statali per aiutare i più fragili (il Medicare e il Medicaid) ma tutti quelli che vogliono essere curati devono possedere una polizza, o pagare di tasca propria conti salatissimi, alla portata di pochissimi. La maggior parte dei cittadini ha una assicurazione medica perché questa è inclusa nel contratto di lavoro. In pratica: se lavori puoi curarti, se non lavori, no. Facile capire come in un momento come questo la possibilità di perdere il lavoro e dunque di non avere assistenza sanitaria salga esponenzialmente.

Ancora una volta qualsiasi questione si ponga negli Usa diventa anche una questione etnica. Il bilancio dell’epidemia fino a questo momento smentisce la dichiarazione di Cuomo, governatore di New York, secondo il quale il coronavirus è un “grande equalizzatore” e colpisce tutti indistintamente. Non è così. Le disuguaglianze sono particolarmente evidenti in città come New Orleans, Chicago e Detroit, dove vivono alte concentrazioni di afroamericani. In Lousiana, con il quarto maggior numero di casi di contagio degli USA, il 70% delle morti è afroamericano. A New York, epicentro della pandemia negli Stati Uniti, il coronavirus sta uccidendo gli afroamericani e gli ispanici con una frequenza doppia rispetto ai bianchi.

L’epidemia non fa sconti, vero. Ma non si tratta di una livella piuttosto di un faro, un faro puntato dritto contro le ingiustizie sociali ed economiche di tutti i Paesi, degli Stati Uniti in particolare.

 In generale e normalmente le condizioni sanitarie dei gruppi etnici statunitensi variano in relazione alla ricchezza, alla possibilità di accedere a cibi sani e non troppo cari, alla qualità della vita di dove si abita.

Gli afroamericani soffrono di alti tassi di obesità, diabete e asma - condizioni di salute di base che mettono le persone a maggior rischio di complicanze da COVID-19 – molto più rispetto ai bianchi. In più, gli afroamericani corrono un rischio maggiore di esposizione al virus perché vivono concentrati nelle aree urbane e lavorano nelle industrie essenziali. Solo il 20% dei lavoratori di colore ha dichiarato di essere idoneo a lavorare da casa, rispetto a circa il 30% delle loro controparti bianche.

Una realtà che il COVID-19 non sta facendo altro che amplificare.

E cosa avverrà, perché al momento non ancora interessate dalla vera ondata epidemica, nelle nazioni del Sudamerica? Economie fragili, sistemi sanitari fortemente carenti in Paesi che per la sanità spendono meno dell’Africa, enormi ingiutizie sociali, democrazie in bilico.

Un dato su tutti. Secondo il grafico multimediale messo a disposizione dalla John Hopkins University, al 13 aprile il Brasile conta 22318 casi di contagi – anche qui il numero dei tamponi effettuato è limitato – i morti sono 1500. Ma secondo fonti giornalistiche locali i morti sarebbero già oltre 5 mila dunque con un tasso di letalità tragicamente elevato. Dove sono questi morti? Nelle favelas, nei ghetti urbani, nelle municipalità disperse. E c’è il rischio che dopo la prima vittima registrata le popolazioni indio dell’Amazzonia possano subire un’ecatombe. Anche il Brasile ha un presidente che parla di “immunità di gregge”, ma mentre nel caso degli Usa quella democrazia è in grado di controbilanciare le “sparate presidenziali”, la democrazia brasiliana non sembra così forte da limitare quella che appare non una possibilità scientifica, per quanto improbabile e ingiusta, quanto una politica mirata di Bolsonaro allo scopo di eliminare fasce della popolazione invise ai poteri conservatori che lo sostengono.

Non faceva parte dei programmi elettorali dell’ex ufficiale di artiglieria quello di spazzare via le favelas?

Italia, Usa, Brasile, tre casi di differenti ingiustizie che il Coronavirus ha portato con sé. Vincere la battaglia sanitaria, quella scientifica, non varrà a nulla se assieme non si vincerà la battaglia contro le ingiustizie sociali su cui virus come questi proliferano e devastano le società globalizzate del Terzo millennio.

 

 

 

 



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