Hammamet.

Un film militante che parla dei giorni nostri con un Pierfrancesco Favino che, letteralmente, da corpo a Craxi.

di EMILIANO BAGLIO 14/01/2020 ARTE E SPETTACOLO
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Ha un bel dire Gianni Amelio che il suo Hammamet non vuole essere un film politico bensì sulla fine di un uomo solo.

Non basta cambiare i nomi, come nel caso di Stefania Craxi che diventa Anita (Livia Rossi), oppure non farli affatto come per il figlio Bobo (Alberto Paradossi dalla somiglianza straordinaria).

Non è sufficiente nemmeno scegliere un’amante (Claudia Gerini) come personificazione di tutte le donne che ruotavano accanto al leader, oppure affidarsi alla memoria collettiva sperando che il pubblico riconosca in Giuseppe Cederna l’allora segretario amministrativo del Psi Vincenzo Balzamo.

Ed è inutile anche non fare mai il nome e cognome del convitato di pietra quando poi ti affidi ad un Pierfrancesco Favino che, letteralmente, incarna e diventa Craxi in una performance da brividi pur riuscendo al tempo stesso (e qui sta la sua grandezza) a far trapelare se stesso uomo ed attore sotto la maschera.

C’è poco da fare, Hammamet non sarà un film politico ma sicuramente è un film militante.

Resta da capire di cosa parli Amelio e a chi si rivolga.

A noi sembra che da questo punto di vista tutto il senso dell’operazione stia nella metafora della finestra rotta.

Il film infatti si apre con un bambino (scopriremo che è Craxi da piccolo) che prende a sassate le finestre e si chiude nuovamente con un vetro rotto.

Potrebbe essere la metafora del sogno del leader politico che si infrange in mille pezzi.

Oppure quel sasso è il film stesso di Amelio, una provocazione lanciata sul pubblico e sulla storia.

Il Presidente, come viene chiamato nel film, dalla sua latitanza in Tunisia continua a riflettere sulla situazione italiana.

Ammonisce contro un parlamento servo che, pur di salvarsi, fa eleggere lo stesso giudice che voleva mettere sotto accusa un’intera classe politica.

Analizza la scomparsa della parola popolo sostituita dal più generico gente, in una mutazione antropologica, sociale e politica nella quale è possibile scorgere i semi della svolta populista dei giorni nostri.

Insomma, per farla breve, Amelio, a nostro avviso, attraverso Craxi parla dell’Italia di oggi e ci pare che ciò che vede non gli piaccia affatto.

In quest’ottica la storia diventa farsa ed il processo a Craxi si trasforma in un numero di avanspettacolo di quart’ordine interpretato da due guitti (Adolfo Margiotta e Massimo Olcese gli ex Ciquito y Paquito di Avanzi) che sciorinano una canzonetta su una famiglia di ladri dando corpo a quello stesso sentimento che anima il gruppo di turisti italiani che scorge Craxi in Tunisia.

Ovviamente si può non essere d’accordo con quanto Amelio fa dire al suo Craxi per il quale Mani pulite è stato una sorta di golpe orchestrato magari dal Pci, che ne uscirà sostanzialmente immacolato, che ha usato la carcerazione preventiva come una clava ed infine ha sostituito un ordine con un altro, più fragile, meno libero, soggetto agli umori appunto non più del popolo ma della gente.

Resta da analizzare il film e l’impressione è che, come accadde per Sorrentino in Loro, Amelio sia rimasto schiacciato dal peso della figura al centro del suo ultimo lavoro.

Hammamet è dunque un film sfilacciato che soprattutto nel finale comincia a girare in tondo tendendo ad una prolissità esagerata.

Una pellicola che si perde i propri pezzi ed i personaggi primo tra tutti quel Fausto (Luca Filippi) che diventerà il confidente di Craxi sino a custodirne segreti che devono rimanere tali se non si vuole trascinare nel fango il nostro paese.

Eppure l’impressione è che dietro questo andamento episodico, con tocchi di estremo realismo (la vera villa di Craxi come set, la ricostruzione perfetta del congresso all’Ansaldo) e momenti onirici, si nasconda un film di inaudita potenza, una pellicola gigantesca con la quale, prima o poi, dovremo fare i conti.

Certo, chissà quando e chissà chi visto che appare probabile che Hammamet, proprio per la sua mancanza di riferimenti chiari, risulti un’opera incomprensibile per i giovani e tutti quelli che non hanno vissuto quell’epoca.

Quel che è certo è che, come dice Bobo, “Il caso C non è chiuso”.

In un paese che fatica a fare i conti con la storia ed ancora li deve fare con il fascismo l’impressione è che il sasso lanciato da Amelio rimarrà incompreso e quanto si legge in giro sul film non fa che confermare questa ipotesi.

 

EMILIANO BAGLIO


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