Senza lasciare traccia

Un viaggio melanconico, agrodolce, struggente e doloroso in un America marginale.

di 10/11/2018 ARTE E SPETTACOLO
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“Ho girovagato per questo mondo verde e selvaggio e le cose nella mia mente sono come un sole rosso che tramonta. Oh, e io so che devo andare e penso di sapere il perché ma non so perché”

Moon boat, canzone di chiusura di Senza lasciare traccia.

 

Una musica soffusa si leva mentre i titoli di coda scorrono, la telecamera inquadra dettagli della foresta ed una voce canta le parole sopra riportate.

Ed in quelle parole, in quei suoni, in quegli alberi ed in quei germogli rivivono le sensazioni che ti lascia dentro, nello stomaco, la visione di Senza lasciare traccia.

Sensazioni dolci amare, qualcosa di triste e melanconico, di struggente e doloroso.

Come il bellissimo film di Debra Granik che torna sui nostri schermi ad otto anni di distanza da Un gelido inverno dopo aver girato il documentario Stray dog (2014) da noi inedito.

L’esperienza documentaria si sente fortissima nel suo nuovo lavoro.

La Granik non abbellisce le sue immagini con effetti fotografici, anzi spoglia l’inquadratura, i dialoghi e la stessa trama, sfronda di ogni orpello il suo lungometraggio e punta all’essenziale.

Non conta neanche più conoscere il passato dei protagonisti, la causa delle loro azioni, sono sufficienti i loro volti, le loro azioni, l’interagire dei personaggi con l’ambiente, sia esso quello selvaggio dei boschi o quello della città.

L’intento, nel trasportare sullo schermo il libro My abandonment di Peter Rock, a sua volta ispirato ad una storia vera, è quello della massima aderenza possibile al reale al punto che ci si chiede se alcune delle cose che vediamo nel film siano finzione oppure no.

Per il resto si affida alla forza della natura e alle espressioni dei suoi due straordinari protagonisti.

Da una parte il dolore di Will (Ben Foster) e dall’altra l’irrequietezza di Tom (Thomasin McKenzie) combattuta tra l’amore per il padre e la voglia di normalità.

Lui, reduce di guerra affetto da disturbo post traumatico, si è rifugiato nei boschi intorno a Portland insieme alla figlia; sino a quando non arriveranno i servizi sociali che offriranno ai due una vita “normale”, un tetto ed un lavoro.

Inevitabilmente il contatto con la realtà porterà un’insanabile frattura nel rapporto.

Sebbene Senza lasciare traccia sia un’ode alla natura, vera terza protagonista del film, non siamo certo dalle parti dell’esaltazione della vita selvaggia.

Will e Tom fanno parte di quella stessa America in bianco e nero che troneggiava sulla copertina di Nebraska di Springsteen.

Debra Granik ci porta in viaggio verso questo paese abitato da marginali incapaci di accettare il mondo contemporaneo.

Sono veterani di guerra che abitano in tende nei boschi o comunità che vivono in camper in mezzo agli alberi.

A bordi di autobus che attraversano il paese con a bordo ragazze forse scappate di casa, su camion guidati da persone dal cuore d’oro lungo un percorso di fuga che man mano diventa sempre più disperato mentre la libertà diventa una prigione di dolore dalla quale è impossibile sfuggire.

Sino a quando non sarà necessario operare una scelta dolorosa ma inevitabile.

“Penso ancora che noi condividiamo la luna e una stella. Che tu possa stare al sicuro. Possiamo entrambi trovare un posto con un cuore”.

 

EMILIANO BAGLIO


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