Nelle sale Snowpiercer. Il regista coreano Bong Joon-Ho descrive l'insensata e inutile corsa dell'umanità

di Emiliano Baglio 11/03/2014 ARTE E SPETTACOLO
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2014. Nel tentativo di fermare il riscaldamento globale viene sparso nell’atmosfera uno speciale gas refrigerante. Gli effetti sono catastrofici e la terra piomba in una nuova era glaciale.

2031. I pochi sopravvissuti ce l’hanno fatta salendo a bordo di un avveniristico treno dotato di un motore perpetuo che percorrendo un’unica rotaia circolare, nell’arco di un anno, compie l’intero giro del mondo. Nei vagoni di coda ci sono i poveracci, ammassati in spazi angusti e sporchi, tenuti a bada da milizie armate e costretti a cibarsi di insapori barrette proteiche dalla composizione ignota. Nei vagoni di testa vivono i ricchi dotati di ogni confort, serre, vagoni acquari da cui ricavare il pesce, immensi frigoriferi  traboccanti cibo, piscine, saune e persino discoteche. A capo della locomotiva c’è Wilford (Ed Harris), l’uomo che ha progettato il convoglio. I poveracci sono però giustamente stanchi di questa situazione e guidati da Curtis (Chris Evans) hanno deciso di arrivare sino alla testa del treno per prenderne possesso.

Il quinto film del coreano Bong Joon-Ho non procede per velate metafore, tutto è esplicito. Il treno è il nostro mondo capitalista che corre a tutta velocità senza fermarsi mai ma che in realtà ruota su sé stesso tornando sempre al punto di partenza. In questa struttura perfetta ognuno ha il suo ruolo ed il suo posto. Puoi anche credere di cambiare il sistema ma in realtà la tua rivoluzione è perfettamente funzionale al mantenimento dello status quo e magari il tuo mentore non è quello che sembra ma anche lui è colluso col potere costituito e ne rappresenta semplicemente l’altra faccia. L’unica possibilità è uscire fuori da questo sistema chiuso cioè uscire fuori dal treno, vedere in faccia la realtà per com’è veramente squarciando il velo che la copre, riuscire ad immaginare un altro mondo, non per forza migliore, ma semplicemente diverso.

Al tempo stesso il treno è un’ardita metafora meta-cinematografica. Rappresenta cioè al tempo stesso le gabbie del cinema di genere (l’action fantascientifico) ed il sistema hollywoodiano all’interno del quale è costretto a muoversi Bong Joon-ho. Il quale, come i grandi maestri del cinema di genere, usa queste regole per sovvertirle dall’interno. La struttura chiusa del treno gli permette allora di cambiare continuamente registro e di inventarsi un suo personale luna park nel quale sbizzarrirsi con mirabolanti e continue invenzioni, sorprese che lasciano a bocca aperta, sovvertimento continuo delle regole del gioco, rovesciamenti continui e sorprese a non finire. Per ogni vagone che i nostri eroi attraversano, il regista cambia registro, passando dall’azione pura a momenti più drammatici, dall’humor nero (la scena del sushi) al musical (la scena nella scuola), permettendosi addirittura di concentrare momenti diversi ed apparentemente inconciliabili tra loro in un’unica sequenza.

È il caso della scena delle asce, una sequenza lunghissima in cui, praticamente succede di tutto. Uno di quei momenti, oramai rari, in cui il cinema riscopre la sua capacità di lasciare letteralmente a bocca aperta lo spettatore in preda ad uno stupore ed una gioia quasi infantile. Impossibile raccontarla senza rovinare la gioia della sorpresa a chi ancora non ha visto il film. Basti dire che, ad un certo punto, mentre buoni e cattivi se la danno di santa ragione, l’azione improvvisamente si ferma; il treno sta per arrivare alla fine del suo giro annuale ed ecco che allora tutti si bloccano per festeggiare capodanno, così all’improvviso, senza logica, solo per il piacere di chi guarda e quello, evidente, di un regista in stato di pura grazia. Non è un caso che i produttori americani dinnanzi a tanta sfrontata anarchica libertà abbiano deciso di tagliare ben 25 minuti di film (per fortuna solo negli Stati Uniti).

Bong Joon-Ho insomma prende il cinema di genere e ci fa quello che gli pare, come un bambino, con la stessa innocenza e grazia. Lo fa persino con i personaggi. I buoni muoiono all’improvviso senza tanti fronzoli, senza nessuna retorica o epica. Quello che sembrava il “padre” putativo del protagonista, il vecchio e saggio Gilliam (John Hurt) rivela la sua faccia nascosta. Persino il rivoluzionario Curtis, quello che dovrebbe essere secondo i canoni di Hollywood l’eroe puro e senza macchia, alla fine rivelerà un passato semplicemente sconvolgente. Tuttavia il personaggio con il quale s’identifica totalmente il regista, il suo alter ego, è Namgoong (interpretato dal coreano Song Kang-ho alla terza collaborazione col regista). Un ladro tossico il cui unico interesse è procurarsi la droga ricavata dagli scarti industriali che circola a bordo del treno.

Non a caso il suo ruolo è quello di aprire le porte che separano i vari vagoni, egli ha cioè il compito simbolico di traghettare i viaggiatori e gli spettatori da un vagone, ovvero un genere cinematografico, all’altro, scardinando ogni volta le porte e quindi le regole che li governano. Quando i poveracci degli ultimi vagoni lo tirano fuori dal loculo prigione ne quale è tenuto (in stato d’incoscienza) Namgoong ci mette un’eternità a svegliarsi, facendo irrompere in film d’azione americano i temuti tempi morti ed insegnando cosa si può fare con essi se si sa come sfruttarli a dovere, bofonchia poche parole (in coreano aiutandosi con un traduttore simultaneo) e alla faccia del politicamente corretto la prima cosa che fa è accendersi una bella sigaretta sbuffando il fumo in faccia ai sopravvissuti che da ben 17 anni non sentono quell’odore e quindi, metaforicamente ma neanche troppo, sbattendo in faccia al pubblico (e ai produttori) americani la sua voglia irrefrenabile di libertà. Infine è proprio lui a capire che l’unica speranza è uscire dal treno, sfidando la realtà, cioè l’idea che fuori da quel sistema chiuso (il capitalismo, il cinema americano) sia impossibile sopravvivere; e per farsi strada cosà userà il nostro? Proprio la droga sintetica della quale usa ed abusa, che essendo fatta di rifiuti industriali è facilmente infiammabile e quindi può trasformarsi in una bomba artigianale; in uno sberleffo geniale e probabilmente duro da digerire per gli americani Bong Joon-ho rivendica la propria libertà attraverso l’uso della droga.

Nonostante tutto questo però non tutto funziona nel film e verso la fine l’azione lascia troppo spazio alle parole anche se, grazie al cielo, il finale rimette tutto a posto anche perché, diciamocelo francamente, lascia poco spazio alla speranza. Non sappiamo se ci sarà un futuro negli USA per Bong Joon-ho, vista l’incredibile libertà che si è preso con questo suo grande, bellissimo film, o se il nostro sarà costretto a tornare in patria. Comunque sia, innanzitutto, lo spettatore può e deve recuperare i precedenti thriller Memories of murder (2003) e Madre (2009) ed il film di fantascienza mostruosa The host (2006), tutti disponibili in dvd.

Per il resto se la prossima volta Bong Joon-ho avrà ancora più soldi ed ancora più libertà allora avremo un capolavoro assoluto invece che uno dei film di fantascienza più belli, appassionanti, divertenti ed esaltanti degli ultimi anni, Per il momento accontentiamoci, si fa per dire, di questo Snowpiercer, siamo sicuri che anche voi una volta usciti dal cinema avrete voglia di rientrarci subito per rivedere il film. Siate onesti da quant’è che non vi capitava?



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