I peccatori

Praticamente la (brutta) copia di Dal tramonto all'alba.

di EMILIANO BAGLIO 15/05/2025 ARTE E SPETTACOLO
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Due fratelli criminali (George Clooney e Quentin Tarantino), insieme a Harvey Keitel e Juliette Lewis, finiscono al Titty Twister, un bar per camionisti e motociclisti; qui dovranno vedersela con una schiera di…

Ah sì, ci sono pure Salma Hayek che balla in bichini con un serpente avvinghiato addosso e Tom Savini che ha una pistola che esce dalle mutande.

No scusate, ho sbagliato film; questo era Dal tramonto all’alba (1996) di Robert Rodriguez.

Qui invece dobbiamo, purtroppo, parlare de I peccatori di Ryan Coogler, che ne è praticamente la (brutta) copia.

Coogler pesca a piene mani dal film del ‘96 senza il benché minimo pudore, tant’è che, più si va avanti nella visione, più si pensa di essere capitati in uno scherzo di cattivo gusto.

Ora, va bene che nel 2025 c’è ancora chi pensa che la regia di Dal tramonto all’alba sia di Tarantino, ma risulta veramente difficile pensare che nessuno abbia detto a Coogler e soci che questa roba era stata già fatta da gente con un carisma che il nostro onesto mestierante può solo sognarsi.

Certo, Coogler ha cambiato il contesto.

Siamo nel Mississippi del 1932; qui fanno ritorno i fratelli Moore; Smoke e Stack.

Ad interpretarli, si fa’ per dire, invece di Clooney e Tarantino c’è Michael B. Jordan.

L’attore è talmente incapace di dare la benché minima caratterizzazione ai due personaggi che il nostro povero regista è costretto a separarli per gran parte del film cosicché lo spettatore possa capire con chi ha a che fare.

Quando invece i due sono in scena, provvede facendo sì che il loro nome venga sempre pronunciato che sennò uno si confonde; una roba ai limiti del ridicolo.

I due sono tornati da Chicago per aprire un jukebar ma, indovinate un po’, a rovinare l’inaugurazione provvederanno un gruppo di…

Uguale identico al film di Rodriguez.

Il problema più grande, però, non è nemmeno il furto spudorato ma il fatto che Coogler non abbia la minima idea di come si giri un horror e ne abbia poche e di quarta mano per quanto riguarda il resto.

Peccato perché la prima parte del film è più che vedibile ed il nostro azzecca pure almeno la sequenza dell’esibizione del giovane Sammie Moore (Miles Caton), cugino dei due gangster, mettendo in scena una danza indiavolata che annulla i confini spazio temporali e dove i griot africani si esibiscono accanto alle chitarre elettriche e ai moderni dj.

Certo I peccatori non brilla certo per originalità e sembra una checklist di luoghi comuni.

Ci sono gli infiniti campi di cotone ed i lavoratori di colore sfruttati, le baracche dove si dorme in dieci ed i detenuti che spaccano le pietre agli angoli della strada.

E poi, ancora, la giovane meticcia Mary (Hailee Steinfeld) ex amante di Stack, il vecchio suonatore di blues ubriacone, il bianco grasso bifolco che sputa in terra e per finire in bellezza c’è pure Annie (Wunmi Mosaku), la moglie di Smoke, che, ovviamente, è esperta di magia e vive in una capanna in mezzo al bosco.

Ad un certo punto, in questo catalogo di luoghi comuni, dal nulla spuntano pure degli indiani, così tanto per gradire.

L’unica cosa che si salva è l’incessante colonna sonora che gronda blues da tutti i pori.

I peccatori sembra quasi un’ode al blues e qui sta l’unica nota d’interesse del film.

La musica del diavolo, infatti, nel film di Coogler diventa la musica che il diavolo vorrebbe rubare ai neri per impossessarsene.

Ed indovinate un po’, di che colore avrà la pelle questo diavolo?

Ovviamente è bianco e, guarda caso, arriverà dritto dritto in una casa di coloni che hanno in bella vista un cappuccio del Ku Klux Kan.

Il discorso è un po’ lo stesso già affrontato in Get out (2017) di Jordan Peele.

I bianchi che invidiano i neri e cercano di impossessarsi (letteralmente) di loro oppure, come in questo caso, ne rubano la cultura, il che, dal punto di vista musicale, sarebbe puro vero se uno pensa a fenomeni come, ad esempio il British blues.

Ci sarebbe poi anche lo spunto per un discorso sull’uguaglianza, visto che una volta trasformati in...(evitiamo spoiler) tutti sembrano vivere in armonia senza che vi siano differenze di etnia come fossero un’entità unica, il che potrebbe anche essere una critica all’omologazione culturale.

Ma, probabilmente, stiamo caricando di troppi significati un film che, quando si tratta di arrivare al tanto temuto “messaggio”, non trova di meglio che scriverlo a caratteri cubitali con metafore degne di un carro armato.

L’ennesima prova di un regista che non ha la minima idea di come veicolare le proprie idee attraverso le immagini e che, nel frattempo, ci tedia con un film pieno di chiacchiere inutili e tempi morti e che non ci risparmia nemmeno un paio di scene durante i titoli di coda.

EMILIANO BAGLIO


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