Genova vent'anni dal G8. Il ricordo di Carlo Giuliani. Cosa chiedeva il Movimento e chi lo stroncò con la violenza antidemocratica

di redazione 21/07/2021 CULTURA E SOCIETÀ
img

IL RICORDO DI CARLO GIULIANI

Vent'anni dopo la morte di Carlo Giuliani in piazza Alimonda, a Genova, in migliaia arrivano per ricordare quel ragazzo di 23 anni morto nel corso degli eventi del G8 del 2001. "Questa piazza deve servire perché se quelli che sentono queste cose, le conoscono, le capiscono e le continuano a raccontare e le fanno conoscere è possibile cambiare un po' questo Paese e rimetterlo sulla strada giusta", dice da sotto il palco il padre Giuliano, da vent'anni suo malgrado testimone e primo portavoce, con la moglie Heidi, di una ricostruzione dei fatti di quei giorni ben diversa da quella giudiziaria, per cui su quella morte non ci fu un processo.

Piazza Alimonda è gremita, per il ventennale sono arrivati in centinaia anche da altre città, 'reduci' delle manifestazioni di allora ma anche ragazzi che non erano ancora nati. La musica si alterna alle testimonianze, passa per un saluto "per Carlo" anche il cantante spagnolo Manu Chao, anche lui a Genova vent'anni fa. Alle 17.27, poco prima del momento della morte di Carlo, il padre Giuliano prende la parola dal palco e mette in fila ancora una volta i fatti di quel 20 luglio: la carica al corteo delle tute bianche, le fughe, gli scontri. Fatti ripetuti mille volte. La piazza non fiata. Quando parla di "legittima difesa" del figlio parte un lungo applauso.

Tra gli striscioni, uno, in inglese, richiama la parola d'ordine di vent'anni fa: "un altro mondo è - ancora - possibile". Alla fine il presidio dovrebbe sciogliersi ma si trasforma in corteo. Giuliani è contrario, l'organizzazione autorizzata non era quella. I partecipanti però sembrano quasi moltiplicarsi e la gente inizia a riappropriarsi simbolicamente di quella via Tolemaide, già simbolo storico di una svolta nelle manifestazioni alter-mondialiste, con quella carica al corteo mai del tutto chiarita. Il corteo, guidato da bandiere dell'antifa, no tav, con uno striscione in testa che convoca tutti al G20 di ottobre, prosegue per i luoghi centrali di Genova e infine irrompe al Ducale, che allora ospitò i capi di Stato, riuniti per i lavori del G8, allora nell'inviolabile 'zona rossa'. E' una sfilata pacifica e simbolica, come entrano da un varco, defluiscono dall'altro e il corteo si scioglie.

COSA CHIEDEVA QUEL MOVIMENTO STRONCATO DALLE VIOLENZE

I No Global erano contro le multinazionali che producevano in Paesi a zero costo e a zero regole.
E tutti dicevano loro che non era vero, e che volevano frenare lo sviluppo del mondo.
Oggi ne parlano tutti. E qualche settimana fa ne ha parlato pure il presidente americano Joe Biden che ha detto che “anziché parlarne, dovremmo agire, rispondere al lavoro forzato nelle catene di approvvigionamento” dei prodotti che consumiamo.
Esattamente, quel che avrebbe detto un No Global, vent’anni fa.

I No Global erano anche contro la finanza speculativa, contro i paradisi fiscali e a favore di una tassa sulle transazioni finanziarie

Oggi, a quanto pare se ne sono accorti anche tutti gli altri.

Di quanto la finanza speculativa fosse una gigantesca bolla pronta ad esplodere ce ne siamo accorti tutti, dopo la gigantesca crisi del 2008 e la crisi dei debiti sovrani del 2012. Ma soprattutto, i Paesi del G7 si sono accorti che le multinazionali non pagano le tasse e hanno proposto una tassa minima globale del 15%.E il presidente Usa Joe Biden, a quanto pare, sta per finanziare il suo maxi piano di ripresa post Covid con una tassa dello 0,1% su tutte le transazioni finanziarie.
Tutte cose che vent’anni fa chiedevano i No Global

I No Global erano anche contro l’imperialismo militare americano e la guerra al terrore in Afghanistan e, un paio d’anni dopo, in Iraq. Oggi, dopo vent’anni, abbiamo scoperto che la guerra in Iraq, che ha aiutato i terroristi anziché distruggerli, era stata costruita attorno a prove false. E dall’Afghanistan gli Usa se ne sono andati solo qualche giorno fa, con i Taliban ancora in pieno controllo del territorio. Ma chi lo diceva allora era amico dei terroristi e nemico dell’Occidente. Anche se aveva ragione.

I No Global erano per una Unione Europea democratica e sociale, fondata sui bisogni dei lavoratori e delle lavoratrici” e sulla solidarietà tra i popoli. Vent’anni dopo, e dopo una pandemia, all’Europa dell’austerità e dei tagli alla sanità non ci crede più nessuno. Anzi, proprio per rispondere alla pandemia, è stata la stessa Unione Europea a finanziare un piano da quasi 700 miliardi per la ripresa economica. Soldi che verranno spesi per investimenti pubblici, per la transizione ecologica, per la sanità, per la scuola.

E infine, già che ci siamo e che abbiamo tutti negli occhi le alluvioni in Germania e gliincendi in California, i No Global, 20 anni fa, se la prendevano con gli Usa che avevano abbandonato i negoziati per l’accordo di Kyoto e chiedevano un accordo globale sul clima. Oggi, vent’anni dopo, l’Europa si è impegnata ad azzerare le emissioni entro il 2050 e gli Usa di Joe Biden, dopo essere rientrati negli accordi di Parigi, vogliono fare altrettanto.

PERCHE E CHI VOLLE LE VIOLENZE DELLE FORZE DELL'ORDINE

la truppa (circa 11 mila uomini di tutte i corpi, Forestale inclusa) arrivò all’appuntamento del G8 molto carica e incattivita ben prima che il blocco nero innescasse le violenze. Non regge dunque la giustificazione, sbandierata per anni soprattutto dalla destra, della polizia che reagisce, magari in modo un filo esagerato, alle violenze dei devastatori. Le forze dell’ordine arrivarono a Genova già belle cariche per conto loro, ansiose di regolare i conti con le “zecche” (vedi i coretti nazifascisti di Bolzaneto) e di intimidire preventivamente i possibili testimoni, compresi i reporter delle testate più istituzionali.

 

Questo stato d’animo è stato ben coltivato prima del 20 luglio 2001. Fin da febbraio i servizi segreti, non solo italiani, avevano recapitato ai giornali notizie e informative tanto generiche quanto terrorizzanti. Vi si leggeva per esempio che i manifestanti si stavano preparando a lanciare contro gli agenti “palloncini pieni di sangue infetto da Aids“, a far scivolare dalle alture della città “copertoni incendiati”, a sguinzagliare contro le divise “cani pitbull”, a rapire “agenti isolati” per usarli come “scudi umani”. Fake news ante litteram. Un documento anonimo molto ben informato delle dinamiche interne del Viminale già il 5 giugno prefigurava la morte di un manifestante per mano di un agente “magari inesperto”, con conseguente discredito sul nuovo governo Berlusconi.

In questo clima Alleanza nazionale – siamo ancora lontani dalla svolta moderata di Gianfranco Fini – espresse “solidarietà preventiva” alle forze dell’ordine, in particolare ai carabinieri, qualunque cosa fosse successa. Sul fronte opposto, a maggio i Disobbedienti guidati da Luca Casarini dichiararono “guerra” al G8 e a fine giugno diffusero video in cui si addestravano al fronteggiamento contro le forze dell’ordine. La loro era una strategia più che altro mediatica, ma che in quel clima finì per fare il gioco degli strateghi della tensione.

 

Da nessuno dei tanti processi genovesi è mai emerso un ordine specifico di picchiare duro (anche se di solito disposizioni di questo genere non lasciano traccia). Dalle carte e dalle testimonianze in aula oggi possiamo dire che la perquisizione alla Diaz degenerò, fin dal raduno degli agenti in Questura, in una spedizione punitiva, probabilmente sfuggita di mano ai superiori che poi si diedero da fare per camuffare la scena del delitto, perpetrato questa volta dagli uomini in divisa. Il mediattivista Mark Covell fu ridotto in fin di vita da diverse ondate di poliziotti – ripresi dalle telecamere, ma non riconoscibili – benché fosse solo, inerme, già a terra, comunque prima dell’irruzione e fuori da qualunque “resistenza”. A Bolzaneto gli abusi iniziarono subito, nel pomeriggio del 20 luglio, contro persone detenute, impossibilitate a difendersi, figuriamoci a “devastare”. Negli scontri di piazza i primi a essere massacrati furono proprio i manifestanti pacifici, quelle della Rete Lilliput in piazza Manin, mentre i più violenti, quelli del blocco nero, furono sostanzialmente lasciati fare – questa la spiegazione ufficiale – per non mettere ulteriormente a rischio i manifestanti pacifici…

Qualcuno si incaricò pure di attizzare la tensione fra gli uomini e le donne in divisa. Almeno tre volte, tra il 20 e il 21 luglio, fu sparsa la voce che fosse morto un agente. La notte in cui stavo salendo verso la Diaz appena assaltata dalla polizia, di fronte alle mie perplessità su un’azione del genere un collega solitamente bene informato mi stoppò: “Ma come, non sai che hanno ammazzato un poliziotto?“. No, non lo sapevo, perché per fortuna non era successo. Ma forse qualcuno della “macedonia di polizia” (copyright di Vincenzo Canterini, capo del Reparto mobile di Roma) che intervenne quella notte non fece in tempo a ricevere la smentita.

Chi fu il regista della strategia della tensione formato terzo millennio? Un politico o un “tecnico”? Davvero il disastro dell’ordine pubblico – su tutti, la carica illegittima dei carabinieri contro i Disobbedienti in via Tolemaide – fu frutto di errori, o qualcuno in quei giorni e in quella lunga vigilia puntava a innalzare la tensione invece di gestirla e stemperarla? Chi, e perché? Vent’anni dopo sono domande ancora senza risposta. Ma, come in ogni mistero italiano che si rispetti, con tanti indizi su cui riflettere e tanti silenzi da provare a scalfire.



Ti potrebbero interessare

Speciali