Siberia

Un viaggio onirico in forma di sogno/incubo che procede per libere associazioni di immagini all'interno della psiche del regista.

di EMILIANO BAGLIO 30/08/2020 ARTE E SPETTACOLO
img

Forse per decriptare Siberia sarebbe utile la visione del precedente Tommaso girato durante la postproduzione di Siberia stesso.

Inedito in Italia, la pellicola narra di un artista americano (Willem Dafoe) che vive a Roma con moglie e figlia. Praticamente la storia di Ferrara stesso.

Realtà e fantasia si intrecciano anche nel nuovo lavoro.

Tornano sia la moglie del regista, Christina Chiriac, che la loro figlia Anna.

Nello specifico Christina interpreta una ragazza russa. L’ultimo dei tre incontri fatti dal protagonista di Siberia (sempre Dafoe). Il primo era stato con un esquimese. In entrambi i casi i personaggi parlano lingue diverse e non si capiscono. In un lampo di rara consapevolezza non sono doppiati né sottotitolati ad aumentare il senso di straniamento del film.

Dafoe invece, nella triplice parte del protagonista, di suo fratello e di suo padre, si doppia da sé, in italiano.

Piccoli particolari si dirà che pure concorrono a comporre un’esperienza filmica unica.

In ogni caso Dafoe vive isolato in una catapecchia da qualche parte in Siberia (in realtà il nostro Trentino Alto-Adige). Serve da bere a chi arriva lì ed è ossessionato da sogni ed incubi.

Il giorno dopo l’arrivo della ragazza russa decide di partire.

Comincia così il viaggio/sogno di cui è fatto Siberia.

Ferrara procede seguendo una costruzione onirica, in cui ogni immagine è altamente simbolica e nelle quali le leggi spazio/temporali non esistono ma tutto procede per assonanze e libere associazioni.

Il film è scritto insieme allo psichiatra Christ Zois, alla sua quinta collaborazione con il regista.
Viene dunque spontaneo il sospetto che ancora una volta Ferrara, tramite il suo nuovo attore feticcio Dafoe, stia mettendo in scena sé stesso, la sua storia, i suoi traumi.

Chissà, ad esempio, quanto c’è di vero nel racconto iniziale o quanta autoanalisi si nasconde nell’improvvisa apparizione del padre del protagonista. E quel fratello è reale o è solo una proiezione della mente del protagonista, una sorta di alter ego che gli rinfaccia i suoi errori?

In questo viaggio Ferrara mette dentro di tutto. C’è una sorta di campo di concentramento, metafora forse degli orrori del ‘900. Una caverna abitata da freaks e malati di mente, forse metafora della follia.

Nel suo procedere libero da qualsiasi struttura narrativa convenzionale le nevi si trasformano in un deserto dove c’è una tenda di nomadi.
All’interno della tenda si svolgono riti magici di guarigione e al tempo stesso vi è una moderna sala operatoria dove il padre del protagonista passa il bisturi a suo figlio perché incida le carni.
Il rapporto sessuale con una donna diventa il rapporto con tutte le donne conosciute da Ferrara stesso in un sovrapporsi di corpi e volti e nell’angolo della stanza c’è il vero figlio del regista che mette in scena le proprie crisi matrimoniali, tutta la sua vita, i suoi film e persino quelli di Dafoe (quel deserto non è forse lo stesso de L’ultima tentazione di Cristo?).
Come nella fede buddista alla quale si è convertito Ferrara dopo una vita da cattolico, tutto è collegato e per citare un film che appare incredibilmente vicino a questo, Niente è come sembra (2007. Regia di Franco Battiato).

Siberia sembra provenire da un altro tempo e richiama un certo cinema sperimentale degli anni ’70, Jodorowsky in testa.

Ne viene fuori l’ennesimo tassello di una filmografia che appare sempre più una sorta di “cinema guerriglia”.
Abel Ferrara assomiglia sempre più ad una sorta di cineasta dimenticato, al quale si guarda quasi con pietà ricordando i bei tempi passati, incompreso e lasciato in un angolo che pure continua a sfornare film in cui continua a gridare che lui è vivo.
Non c’è nessun richiamo a quanto va di moda oggi nel cosiddetto cinema d’autore. Piuttosto c’è un drone che segue il nostro eroe mentre guida la sua slitta sulla neve, quelle immagini digitali sgranate e quasi amatoriali, una fotografia talmente virata al verde da far apparire il sangue viola.

Dobbiamo fare i conti con un cinema libero e vitale, autoreferenziale e quasi narcisistico.

Una prassi che se ne frega della critica e dello spettatore.
Ferrara fa film su sé stesso e per sé stesso in un processo di autoanalisi in cui è inutile cercare un senso.
L’unica è lasciarsi andare al flusso di coscienza che scorre sullo schermo.
Prendere o lasciare.
Noi prendiamo volentieri un cineasta così coraggioso e libero.
Ma esprimiamo piena comprensione per gli spettatori che hanno abbandonato la sala.
Alla fine si torna a casa, come il protagonista, e ci si trova a fare i conti con delle rovine fumanti.
Pezzi di film, forse di vita, da rimettere insieme per ricostruire qualcosa.

Forse è meglio guardare il cielo e fondersi con esso.

EMILIANO BAGLIO


Tags:




Ti potrebbero interessare

Speciali