Mahnaz Mohammadi: Son-mother. Un ritratto duro dell'Iran di oggi, una dittatura che schiaccia tutti sotto il suo peso impedendo la libertà e la felicità.

Alice nella città. Concorso.

di EMILIANO BAGLIO 25/10/2019 ARTE E SPETTACOLO
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Non c’è speranza per nessuno nell’Iran di oggi, anno 2019.

Leila (Raha Khodayari) vedova con due figli tira avanti come può lavorando in una fabbrica.

Da quando Kazem (Reza Behboodi), autista dell’autobus dell’azienda, l’ha chiesta in sposa le cose poi vanno anche peggio.

Le malelingue la perseguitano rendendo la sua vita ancora più difficile.

Come in ogni regime che si rispetti la delazione, nell’Iran descritto da Mohammadi, condiziona pesantemente le vita di tutti.

Certo a pagarne maggiormente le spese sono le donne come Leila, perché ciò che pensa, dice o scrive su di te la gente può addirittura farti perdere il lavoro senza lasciarti praticamente scelta alcuna.

Anche Kazem però è vittima dello stesso sistema.

Non che sia un uomo cattivo, anzi il suo amore è sincero e profondo.

Tuttavia la preoccupazione intorno alla reputazione di sua figlia qualora accetti in casa Amir (Mahan Nasiri), il figlio maggiore della futura sposa, lo costringe a porre una condizione durissima affinché il matrimonio possa celebrarsi.

Per chi ha la disgrazia di nascere donna in quella parte del mondo, ogni possibilità di essere libera ed indipendente, ovviamente, è assolutamente preclusa.

L’unica alternativa alla povertà per Leila è rappresentata da Kazem e dunque non resta dunque che accettare le cose come stanno.

Ennesime vittime di questo sistema disumano e dominato dalla burocrazia (altra caratteristica comune ad ogni dittatura), sono i più deboli tra i deboli: i bambini.

Leila, con la complicità di Bibi (Maryam Bouban) dovrà abbandonare Amir.

Arrivati a questo punto Son – mother sferra il suo colpo definitivo.

Essendo sola, l’unica chance che ha Leila è quella di affidare il figlio alla scuola dove lavora Bibi, un istituto per sordi.

Viene da chiedersi quanti bambini in Iran vivano nelle stesse condizioni, abbandonati dalle proprie madri che non hanno alternativa alcuna.

Quello che è peggio è che Amir dovrà fingersi anch’esso muto e sordo.

Senza mezzi termini la regista ci dice chiaro e tondo che l’Iran di oggi è un posto dove per sopravvivere bisogna cancellare completamente la propria identità, perdere ogni residuo di umanità.

Diventare, letteralmente, insensibili al mondo esterno.

Fingere di essere quello che non si è.

Ricorrere a sotterfugi per salvarsi la pelle.

Diviso in due parti, Son che descrive la vita della madre e Mother che, invece si concentra sul bimbo; il film di Mohammadi descrive una realtà in cui tutti sono vittime, un paese marcio del quale vengono denunciate tutte le storture trovando persino il coraggio, in una piccola sequenze dall’impatto fortissimo, di denunciare la presenza di pedofili; un particolare che, immaginiamo, non avrà certo fatto piacere alle autorità iraniane.

Si cresce troppo in fretta nell’Iran di oggi, si perde l’innocenza e si diventa subito grandi e si rimane lì a fissare la neve che scende in cortile mentre le lacrime ci rigano il viso.

 

EMILIANO BAGLIO.


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