Pet sematary.
Kölsch e Widmyer tradiscono Stephen King e ne escono vincenti.

Nel 1989, Cimitero vivente, diretto da Mary Lambert si poneva come operazione benedetta da Stephen King in persona che, stanco di veder traditi i suoi libri trasposti in pellicola, decise di scrivere lui stesso l’adattamento del suo romanzo riservandosi per di più un cammeo che aveva il sapore della benedizione all’intera operazione.
Kevin Kölsch e Dennis Widmyer, registi dell’acclamato Starry eyes (2014), hanno invece inevitabilmente deciso di tradire il modello originale.
L’ossatura, tuttavia, rimane la stessa.
Louis Creed (Jason Clarke) e la moglie Rachel (Amy Seimetz) insieme ai due figli si sono appena trasferiti in campagna.
Tutto sembra andare più o meno bene sino a quando non muore Church, l’adorato gatto di famiglia.
Per evitare il trauma alla piccola Ellie (la figlia maggiore dei due) il vicino di casa Jud (John Lithgow) porta Louis a seppellire il gatto in un antico cimitero indiano; il resto è storia (più o meno) nota.
Kölsch e Widmyer lavorano d’accetta rispetto al film del 1989.
Nessun accenno al passato di Jud e alle storie legate al cimitero indiano, nessuno spazio ai contrasti tra Louis ed i genitori di Rachel.
Oltre ai numerosi tagli c’è da notare anche un significativo ribaltamento rispetto al vero protagonista della vicenda.
Sebbene infatti il motore degli eventi sia sempre Louis e gli atti da lui compiuti, in questa nuova versione, il vero personaggio principale, a nostro avviso, è la moglie Rachel.
Due sono infatti i temi che interessano ai registi.
Il primo, un po’ come in Starry eyes, è vedere sin dove si sia disposti a spingersi pur di dar vita ai proprio desideri.
Il secondo è il senso di colpa, perfettamente incarnato da Rachel e dal trauma della morte di sua sorella di cui la donna si è sempre sentita responsabile.
Da subito la nuova casa dei coniugi ed il bosco diventano entità vive, percorse da oscure presenze, in cui si materializza e si riaffaccia il passato presentando il conto di ciò che ha fatto Rachel ed appunto del suo senso di colpa.
Per il resto Kölsch e Widmyer realizzano un buon prodotto d’intrattenimento, senza troppe pretese d’autore ed una buona dose di jump scare nel quale riciclano suggestioni prese da altre pellicole.
Così la processione funebre con maschere da animali sembra provenire direttamente da quel capolavoro che è The wicker man (Robin Hardy, 1973), il sangue che cola dal montavivande sembra una citazione da Shining e la scenografia del cimitero indiano è presa in prestito da …E tu vivrai nel terrore! L’aldilà di Lucio Fulci.
Eppure nonostante la vicenda sia ridotta all’osso, il cambiamento del punto di vista funziona e Pet sematary riesce a diventare un film capace, come tante altre pellicole horror uscite negli ultimi anni, di dare un corpo perturbante al senso di colpa che sempre di più opprime le vite dei protagonisti spandendosi come un miasma tra i boschi oscuri e le pareti di una casa sempre meno accogliente e sempre più sinistra.
C’è però un altro tradimento operato dal film e riguarda la morte che da il via alla parte finale del film.
Kölsch e Widmyer potrebbe sembrare che optino per una scelta di comodo meno sinistra e scioccante rispetto all’originale.
A nostro avviso, invece proprio la scelta di chi far morire, rappresenta il piccolo colpo di genio del film.
Pet sematary prende una strada completamente diversa rispetto al libro e al film ma sta proprio qui la parte più interessante del discorso intrapreso dai due registi.
Che nel finale del loro film finalmente sembrano prendere possesso di una pellicola sulla quale, evidentemente, non hanno avuto il pieno controllo, e mettono al centro del loro discorso la famiglia.
Qui sta il loro più grande tradimento ma anche quello che è, forse, l’unico marchio d’autore.
I Creed alla fine si riuniscono in un nuovo nucleo familiare ed onestamente questa famiglia tornata dalla morte, folle, assassina e vendicativa è molto più sinistra di quanto non possa sembrare.
I tre morti viventi (quattro se contiamo il gatto) che alla fine circondano quell’auto con dentro non diremo chi, sono una geniale intuizione che, forse, ci dice anche qualcosa su che fine abbiano fatto i valori fondanti dell’America.
Magari stiamo esagerando noi ma in Pet sematary si può tranquillamente vedere una lettura politica ed un attacco frontale ai valori stelle e strisce.
Perché alla fine sì, vissero tutti felici e contenti.
Ma quelli che vissero felici e contenti sono dei mostri.
EMILIANO BAGLIO
