Gli orsi non esistono
Nelle sale l'ultimo film di Panahi, attualmentenuovamente incarcerato in Iran, Gran premio speciale della Giuria all'ultimo festival di Venezia. Assolutamente da non perdere
Gli orsi non esistono
Nelle sale l’ultimo film di Panahi, attualmente incarcerato in Iran, Gran premio speciale della Giuria all’ultimo festival di Venezia. Assolutamente da non perdere
Che cosa stiamo guardando?
Basta un piccolo movimento indietro della macchina da presa perché Jafar Panahi faccia esplodere tutta la straordinaria potenza del suo ultimo Gli orsi non esistono (Premio speciale della Giuria all’ultimo Festival di Venezia) e ponga sul piatto la domanda che attraversa tutto il suo ultimo film.
Improvvisamente l’immagine davanti ai nostri occhi si rivela essere qualcos’altro rispetto a ciò che pensavamo fosse, il velo cade e si rivela il “trucco”.
È solo l’inizio di una vorticosa e vertiginosa mise en abyme, un gioco di specchi o di scatole cinesi in cui realtà e finzione si confondono continuamente senza che alla fine sia più possibile distinguere l’una dall’altra.
Da una parte c’è il film che la troupe di Panahi sta realizzando in Turchia, mentre il regista controlla tutto a distanza dal suo computer lottando contro una connessione ballerina.
Si tratta della storia di due amanti, esuli iraniani in Turchia che finalmente sembra che stiano per riuscire ad abbandonare il paese dopo anni di tentativi.
Apparentemente Panahi ed i suoi aiutanti stanno realizzando un documentario sui due eppure, al tempo stesso, il regista interviene continuamente dando indicazioni ai due protagonisti come fossero attori intenti a recitare una fiction.
Finché la finzione stessa non interviene in questa sorta di strana docufiction ad insaputa dello stesso regista. nella forma di una vera e propria messa in scena da parte di uno dei due attori, un inganno ai danni della sua compagna.
Quindi, ancora una volta, cosa stiamo guardando?
Un film nel film certo, ma di che natura? Si finge che il regista iraniano stia girando un documentario su due esuli oppure è tutto vero e stiamo assistendo veramente alle peripezie di questa coppia? E ammesso che si tratti di un documentario quanta finzione c’è in esso?
Dall’altra parte c’è Panahi che, ancora una volta, mette in scena sé stesso.
Una scelta obbligata da quando nel 2010 il regime ha proibito (per vent’anni) al regista di lasciare il paese, di parlare con i giornalisti e soprattutto di realizzare film.
Panahi ha dovuto reinventare il suo cinema trovando ogni volta degli stratagemmi per aggirare la censura.
Il risultato è un’inevitabile commistione, anche qui, di realtà e finzione.
Stavolta il nostro si trova in un piccolo villaggio scelto perché al confine con la Turchia.
Mentre è intento a dirigere la sua troupe il regista si trova, involontariamente, al centro di una diatriba riguardo una sua presunta foto che proverebbe l’amore clandestino tra due giovani.
Impossibile anche in questo caso non porsi la stessa domanda, cosa stiamo guardando?
Quanto c’è di vero e quanto di ricostruito in questa vicenda?
Esemplare, in tal senso, è la sequenza in cui Panahi chiede al suo padrone di casa di riprendere per lui la cerimonia del lavaggio dei piedi di due promessi sposi.
Il risultato sono una serie di immagini assolutamente amatoriali, le stesse cui potrebbe dar vita un dilettante alle prime armi.
Rimane però, come sempre il dubbio sull’origine delle stesse, veramente sono frutto di una mano amatoriale o sono state create ad hoc dal regista stesso?
Tutto Gli orsi non esistono si muove su questa linea di confine, che non è solo quella tra i generi, tra vero e falso, tra immagini rubate e ricostruite, tra neorealismo e finzione.
Il confine è anche quello fisico che Panahi non può più oltrepassare e sul quale, ad un certo punto, si ritrova fisicamente.
Lo stesso confine che gli amanti delle due vicende cercano disperatamente di oltrepassare.
Inevitabile non pensare al destino e alla storia dello stesso regista che riflette sulla propria condizione non senza una robusta dose di autoironia.
Dunque se Gli orsi non esistono è cinema politico lo è innanzitutto proprio per il suo porsi problematicamente rispetto alla natura stessa dell’immagine spingendo lo spettatore a riflette su di essa.
Il resto viene da sé, la descrizione di usi e costumi del proprio popolo, la presa di posizione, già presente in altre pellicole, contro certe tradizioni, la condizione della donna.
Il grande pregio è che questi grandi temi sono affrontati senza sovrastrutture intellettuali pesanti ma con uno sguardo leggero ed ironico almeno sino a quando la tragedia non irrompe prepotentemente sulla scena.
Allora non resta che un’ultima insistita inquadratura, di inaudita potenza, sul volto del regista sopraffatto dalla rabbia, dall’impotenza e dal dolore mentre suona insistentemente l’avviso della cintura di sicurezza slacciata.
E poi violento ed improvviso il buio.
EMILIANO BAGLIO