Guerra ed energia. Idee, proposte, scenari. Mentre la Germania dichiara lo stato di preallerta per le forniture di gas. L'Europa che può fare?

di redazione 31/03/2022 AMBIENTE
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In queste settimane di crisi energetica causata dalla guerra in Ucraina, e non solo visto la cosiddetta volatilità dei mercati, Il teleriscaldamento potrebbe contribuire in modo rilevante a diminuire le importazioni italiane di gas dalla Russia e così migliorare la sicurezza energetica nazionale.

Questo il tema su cui si è focalizzato il recente convegno “Teleriscaldamento, il calore che unisce” organizzato da Airu (Associazione Italiana Riscaldamento Urbano).

Come riportato dal periodicoIn particolare, sviluppando tutto il potenziale di questa tecnologia in Italia – grazie ai nuovi impianti di quarta generazione ancora più efficienti – si potrebbero tagliare le importazioni di gas di circa 2,12 miliardi di Smc (standard metri cubi), quasi il 10% del combustibile fossile oggi acquistato da Mosca.

Il dato emerge dalla ricerca realizzata da Elemens per Airu, intitolata “Il teleriscaldamento: efficienza e rinnovabili a servizio della decarbonizzazione”, dove si evidenzia anche la possibilità di ridurre di 5,7 milioni di tonnellate/anno le emissioni di CO2.

Già uno studio realizzato nel 2020 per Airu dai Politecnici di Milano e di Torino, aveva sottolineato che in Italia esiste un potenziale di sviluppo del teleriscaldamento efficiente di quarta generazione di 38 TWh (4 volte il livello attuale), pari al 12% del fabbisogno civile: le principali fonti di energia sono il calore di scarto industriale e quella geotermica, recuperabile anche con pompe di calore.

I sistemi di teleriscaldamento innovativi di quarta generazione, infatti, lavorano a basse temperature con una produzione distribuita, reti bidirezionali e un uso esteso degli accumuli termici.

In Italia gli ostacoli al pieno sviluppo del teleriscaldamento – rimarca la nuova ricerca di Elemens – sono principalmente di natura regolatoria, economica e autorizzativa: le normative del settore non hanno ancora accompagnato l’innovazione tecnologica che lo ha investito, mentre non esistono meccanismi incentivanti per gli operatori e per i consumatori definiti appositamente per il teleriscaldamento, capaci di favorirne lo sviluppo.

Il proeblema, evidenzia lo studio, è che senza un supporto di natura economica, meno del 30% del potenziale individuato nella ricerca sarebbe effettivamente realizzabile: una soluzione potrebbe arrivare dalle nuove norme sui certificati bianchi, anche se soluzioni alternative basate sui contributi in conto esercizio e/o capitale potrebbero rappresentare un supporto più efficace.

Per quanto riguarda il Pnrr, le risorse rese disponibili dal Piano nazionale di ripresa e resilienza per il teleriscaldamento ammontano a 200 milioni di euro (solo 1% delle risorse complessivamente destinate alle misure di efficienza energetica), da assegnare con un bando di gara che premierà i progetti più efficienti.

Il supporto finanziario del Recovery Fund – un incentivo in conto capitale, pari al 30% del capitale investito – sarà accessibile tramite fondi: il 65% andrà alle reti di calore e il 35% ai nuovi impianti di teleriscaldamento.

Tuttavia, queste risorse, secondo gli autori della ricerca, sono del tutto insufficienti a supportare gli investimenti richiesti per sviluppare tutto il potenziale italiano nel teleriscaldamento, pari a quasi 50 miliardi di euro.

Intanto la Germania ha dichiarato lo stato di preallarme per le forniture gas, in seguito alla richiesta di Mosca di pagare le sue esportazioni di combustibili fossili in rubli a tutti i Paesi considerati “ostili” (Stati Uniti, Gran Bretagna, Unione europea).

Ad annunciare la decisione del governo federale tedesco  è stato il vice cancelliere e ministro degli Affari economici e delle azioni per il clima, Robert Habeck (Verdi), precisando che al momento non ci sono colli di bottiglia e che la sicurezza energetica è garantita, con gli stoccaggi gas tedeschi pieni al 25% circa della loro capacità.

Habeck ha anche chiesto alle aziende e alle famiglie di ridurre quanto più possibile i consumi energetici, perché “ogni kWh conta”.

Così Berlino si sta preparando a una possibile interruzione delle forniture di gas dalla Russia; il governo ha anche convenuto di istituire una task force di emergenza (fonte agenzia Euractiv) per esaminare e valutare la sicurezza degli approvvigionamenti e dare via libera a eventuali misure aggiuntive (si veda anche questo nostro articolo).

La task force sarà formata da membri del ministero di Habeck e degli Stati federati, oltre che da rappresentanti della Bundesnetzagentur (Agenzia federale delle reti) e degli operatori di trasmissione.

In Italia, analogo annuncio dello stato di preallarme era stato dato lo scorso febbraio dal ministero della Transizione ecologica, dopo lo scoppio del conflitto in Ucraina; nel nostro Paese è una misura di cautela che prevede un monitoraggio costante della situazione energetica nazionale e un riempimento anticipato degli stoccaggi.

La Germania è molto dipendente dal gas russo: in media negli ultimi anni ha importato il 55% di questa risorsa energetica da Mosca, ha ricordato Habeck, aggiungendo però che la quota è ora scesa al 40% circa.

Lo stato di preallarme è il primo di tre livelli nella scala delle emergenze. Il secondo livello (allarme) lascia ancora al mercato il compito di regolare domanda e offerta, mentre nel terzo livello, quello della vera e propria emergenza, è lo Stato a intervenire direttamente, tramite il regolatore di rete, per distribuire il gas disponibile, dando priorità alle abitazioni e agli ospedali.

UNIONE EUROPEA

La Russia non è più un fornitore affidabile di gas e petrolio. È ormai chiaro a tutti i leader europei, anche se le soluzioni proposte finora per liberarsi dai combustibili fossili importati da Mosca non sembrano abbastanza coraggiose e lungimiranti.

È il succo di un articolo di commento scritto da Heather Grabbe (Open Society European Policy Institute, di cui è direttrice), pubblicato su Politico, dove si evidenzia che le fonti fossili hanno un problema di autocrazia e che i Paesi Ue dovrebbero puntare su un piano di indipendenza energetica incentrato sulle rinnovabili.

Questa analisi, scritta alla vigilia del Consiglio europeo del 24-25 marzo, mette in luce dei nodi tuttora irrisolti e perché i capi di Stato e di governo hanno rinviato le decisioni importanti – tetto ai prezzi del gas, riforma del mercato elettrico – a un prossimo piano che la Commissione europea dovrà presentare entro la fine di maggio.

“In ogni risposta alle emergenze, vengono commessi errori che in seguito possono rivelarsi costosi”, scrive Grabbe, e ora si rischia di ripetere un errore già compiuto in passato: pensare che le forniture di risorse fossili continueranno per molti altri decenni.

Sostituire semplicemente un fornitore autocratico di idrocarburi – come la Russia – con altri fornitori autocratici, come Azerbaigian, Iran, Arabia Saudita e Venezuela, infatti, “danneggerebbe le cause del clima, della sicurezza energetica e della governance democratica”.

Più in generale, secondo Grabbe, la priorità assoluta per Bruxelles dovrebbe essere la transizione energetica pulita e i Paesi Ue dovrebbero evitare di realizzare nuove infrastrutture per le fossili e di siglare nuovi contratti per il gas a lungo termine.

Altrimenti, il sistema energetico europeo sarà sempre più esposto al rischio di bloccare (lock-in) i suoi investimenti ancora per molto tempo nel gas e nel petrolio.

Il nuovo accordo Usa-Ue prevede che gli Stati Uniti esporteranno 50 miliardi di metri cubi/anno di Gnl al mercato europeo, ma anche questa soluzione non sembra andare nella direzione suggerita da Grabbe, perché non farà altro che sostituire una parte di gas russo con altro gas, senza alleviare la dipendenza Ue dagli approvvigionamenti esterni di combustibili (vedi “Il ginepraio del gas liquefatto“).

Al contrario, Bruxelles dovrebbe chiarire a cittadini e imprese che la graduale eliminazione delle fonti fossili è una scelta “irreversibile”; non dovrebbe concedere più alcun sussidio per la produzione e/o il consumo di combustibili tradizionali e investire massicciamente in rinnovabili, trasporti a basse emissioni di CO2 e misure di efficienza per ridurre la domanda di gas e petrolio, come la diffusione di pompe di calore e isolamento termico degli edifici.

In sostanza, la politica europea nella crisi energetica attuale dovrebbe impegnarsi con più risolutezza verso il raggiungimento di una vera indipendenza dalle fonti fossili, sostiene Grabbe.

Invece molti numeri segnalano che siamo ancora lontani da un simile cambio di rotta.

Ad esempio, un recente studio di Greenpeace ha sottolineato che il 64% circa della spesa militare italiana per missioni estere nel 2021, circa 800 milioni di euro, ha finanziato operazioni collegate alla difesa di asset fossili (gas e petrolio).

Italia, Spagna e Germania, negli ultimi quattro anni, hanno speso complessivamente più di 4 miliardi di euro in attività militari connesse ai loro interessi nel settore oil & gas.

Considerazioni analoghe arrivano dal professor Kevin Anderson, ricercatore del Tyndall Centre for Climate Change Research e principale autore di un nuovo studio su come uscire dai combustibili fossili su scala globale, in linea con gli obiettivi climatici fissati dagli accordi di Parigi (limitare il surriscaldamento a +1,5 °C rispetto ai livelli preindustriali).

Gli attuali prezzi energetici elevati, afferma Anderson nel presentare lo studio intitolato “Phaseout Pathways for Fossil Fuel Production within Paris-compliant carbon budgets” (link in basso), “ci ricordano anche che petrolio e gas sono materie prime globali volatili e le economie che dipendono da essi continueranno a dover affrontare ripetuti shock e interruzioni”.

Invece usare energia in modo efficiente e con un rapido passaggio alle rinnovabili “aumenterà la sicurezza energetica, costruirà economie resilienti e aiuterà a evitare i peggiori impatti dei cambiamenti climatici”.

Secondo Anderson, 19 dei principali produttori mondiali di gas e petrolio – quelli più ricchi in termini di Pil pro capite, tra cui Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna, Norvegia, Emirati Arabi – dovranno cessare totalmente la produzione oil & gas entro il 2034 con un taglio del 74% entro il 2030.

Tutti gli altri Paesi produttori di fossili dovranno fermare le loro attività in questo settore tra 2039 e 2050. Ultimi a uscire dai combustibili fossili saranno i Paesi più poveri, che quindi hanno bisogno di più tempo e più sostegno internazionale per trasformare le loro economie.

Gli eventi geopolitici di queste settimane mostrano con chiarezza quanto sia urgente ridefinire dalle fondamenta il mix energetico non solo europeo, ma anche a livello globale.


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