Biografilm Festival 2020. In concorso. Faith di Valentina Pedicini.

di 06/06/2020 ARTE E SPETTACOLO
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Era il 2008 quando Valentina Pedicini, allora studentessa di cinema, conobbe Laura Perrini, campionessa di kung fu, realizzando su di lei il suo primo cortometraggio documentario.

Grazie a questo incontro la regista conobbe i Guerrieri della luce (I monaci guardiani del tempo); una comunità monastica fondata da Corrado Lazzarini, ex campione e maestro di arti marziali; guerrieri di fede cristiana che dedicano la loro vita ad allenarsi alla lotta contro il male.

Undici anni dopo Pedicini è tornata da loro, ha passato 4 mesi con la sua piccola troupe all’interno del monastero ed ha realizzato Faith, il suo terzo lungometraggio dopo Dal profondo (http://www.euroroma.net/2966/ARTEESPETTACOLO/dal-profondo-film-coraggioso-e-intenso-di-valentina-pedicini-tra-le-viscere-delle-miniere-sarde.html) e Dove cadono le ombre (http://www.euroroma.net/6282/ROMA/dove-cadono-le-ombre-valentina-pedicini-ricostruisce-lo-sterminio-delletnia-jenisch-in-un-film-rigoroso-ed-essenziale.html).

Grazie a questa prolungata convivenza la regista ha conquistato la fiducia di questi guerrieri ed il suo documentario riesce a restituirci anche i momenti più intimi della loro quotidianità, dalle confessioni, alle crisi di fede, dalle sedute di analisi collettiva agli estenuanti allenamenti sino alla vita familiare di chi, nel frattempo, ha avuto anche dei figli nati e cresciuti in questo ambiente.

Apparentemente Faith cerca dunque di mostrarci le cose cosi come sono, senza filtri, quasi che non vi fosse presente una telecamera.

Si ripropone quindi il vecchio dibattito sulla presunta oggettività del reale.

Tuttavia, oramai sappiamo bene che si tratta, appunto, di un mito, e che la sola presenza di un osservatore, di un punto di vista, inevitabilmente interviene su ciò che si vorrebbe mostrare nella maniera più neutra ed oggettiva possibile.

Faith ruota intorno a questa dicotomia, esserci e non esserci al tempo stesso.

Ciò che interessa alla regista non è tanto descriverci la comunità, i suoi riti e le sue regole, tanto che alla fine sono più le domande che le risposte a cominciare dal grande interrogativo che, inevitabilmente tutti si porranno, ovvero come riescano a campare queste persone che hanno volontariamente scelto di auto isolarsi dal mondo.

L’obiettivo di Valentina Pedicini è molto più ambizioso, ovvero cercare di catturare su pellicola l’invisibile, cioè la fede.

Tuttavia la pretesa di non intervenire su ciò che si osserva si scontra con le precise e rigorose scelte estetiche operate dalla regista.

A cominciare dall’uso del bianco e nero, una decisione forse inevitabile giacché i monaci stessi si vestono solo di bianco.

Eppure la mancanza del colore è anche il mezzo attraverso il quale Valentina Pedicini riesce a rendere atemporale la vicenda che narra, che è si ambientata ai giorni nostri ma che, al tempo stesso, vuole proporsi come un’esperienza universale sospesa fuori dalla contemporaneità.

Non è un caso che, nell’unica sequenza ambientata fuori da queste mura, vengano utilizzate delle ottiche degli anni ’60 che creano una sorta di mascherina intorno all’immagine e che vi sia una diversa qualità della stessa, che appare sgranata, quasi stessimo vedendo immagini di repertorio appartenenti ad un altrove rispetto al resto della vicenda.

Altrettanto esemplare è una delle tante sequenze di allenamento di Laura, illustrata dall’immagine allegata a questo articolo.

Al centro vi è il sacco da boxe, leggermente sulla sinistra Laura seduta in terra ed infine seduto all’angolo il maestro.

La composizione spaziale di questa scena ha una tale perfezione geometrica da lasciare il dubbio che sia stata creata ad hoc, se non fosse che la stessa regista ci assicura che tutto ciò che vediamo è realmente accaduto.

A conferma di ciò c’è l’impercettibile movimento con il quale la camera si sposta leggermente indietro per ricercare, appunto, l’inquadratura perfetta.

Ma a distruggere definitivamente l’illusione è la sfrontatezza di un bambino che, improvvisamente, guarda a lungo in macchina.

Ecco allora che improvvisamente la quarta parete cade definitivamente, il reale autentico fa irruzione, smaschera la presenza di un osservatore.

Ci ritroviamo dinanzi alla magia del cinema, e del documentario in particolare, con un’immagine che vale più di mille discorsi teorici.

Così come accade quando lo stesso bambino dice che il cucchiaino bianco è più bello, quasi avesse completamente introiettato la volontà di purezza di questi monaci.

Faith diviene così, anche un’altissima riflessione teorica sullo statuto stesso del documentario, sul rapporto tra rappresentazione del reale e punto di vista di chi osserva, sullo scontro tra la volontà della regista di far parlare i protagonisti e la scelta, al tempo stesso, di essere comunque presente attraverso scelte estetiche precise e rigorose.

L’ennesima conferma di un grandissimo talento.

E complimenti al fonico.

 

EMILIANO BAGLIO


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