23 maggio 1992. 28 anni fa la Strage di Capaci. Le iniziative. Lenzuola alle finestre per non dimenticare il giudice Falcone, sua moglie e gli uomini della scorta

di redazione 23/05/2020 CULTURA E SOCIETÀ
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Lenzuoli ai balconi anche delle sedi istituzionali, ricordi e spettacoli in streaming, incontri a distanza. Palermo ricorderà senza i cortei e le navi della legalità l'attentato di Capaci che 28 anni fa costò la vita a Giovanni Falcone, alla mogli Francesca Morvillo e a tre uomini della scorta, Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani.
    Sarà, quella di domani, una giornata vissuta diversamente dal passato, a causa dell'emergenza sanitaria, ma con uno sguardo all'attualità che segnala una presenza costante della mafia anche nella sua dimensione economica. Lo testimonia una nuova confisca di beni per oltre 150 milioni a un imprenditore di Cinisi, Andrea Impastato, prestanome di Bernardo Provenzano e Salvatore Lo Piccolo. Un altro "tesoro" che lo Stato strappa definitivamente dalle mani dei boss proprio alla vigilia dell'anniversario della strage di Capaci.
    L'esposizione dei lenzuoli, che si richiama a una campagna della società civile lanciata dopo l'attentato del 1992, nasce da un impulso della Fondazione Falcone e di #PalermochiamaItalia che hanno scelto uno slogan per riassumere il senso dell'iniziativa: "Il mio balcone è una piazza". I lenzuoli compariranno non solo ai balconi di tanti palermitani ma anche alle facciate della Questura, della Prefettura, del Comune, di villa Pajno residenza del prefetto, della Cgil e di palazzo Gulì, sede del "No Mafia Memorial". Il centro Giuseppe Impastato, che lo gestisce, esporrà un lenzuolo per le vittime di Capaci e uno per i medici e gli infermieri morti mentre fronteggiavano il Covid. Rispetto al passato la parte centrale del programma non sarà più l'incontro con i giovani e le scuole nell'aula bunker dell'Ucciardone. Sarà il web lo spazio virtuale in cui saranno proposti tanti eventi. Il fitto programma si aprirà, come sempre, alle 9 con la deposizione di fiori davanti alla stele dell'autostrada che ricorda la strage. Seguirà alle 10:00 l'assemblea dei rettori delle quattro università siciliane aperta ai contributi di magistrati, uomini di cultura e delle istituzioni. È previsto anche un intervento del ministro dell'università e della ricerca, Gaetano Manfredi. Alle 12 sarà celebrata una messa di suffragio nella chiesa di san Domenico, il Pantheon dei palermitani illustri che accoglie anche le spoglie di Falcone. Intenso il contributo del mondo dello spettacolo. Sabato 23 e domenica 24 la web tv del teatro Massimo proporrà due opere-inchiesta, "Le parole rubate" e "I traditori", dei giornalisti Gery Palazzotto e Salvo Palazzolo.

La versione blues di "Le parole rubate" andrà in onda alle 15 di domani su Rai Radio 3. Altri spettacoli saranno offerti dai canali social e dai siti del Brass Group, della Fondazione Falcone e di Quarto Savona Quindici, il gruppo dedicato ai tre uomini della scorta di Falcone. E infine la chiusura della giornata alle 17:58, l'ora della strage. Un flash mob unirà idealmente tutta l'italia, con le persone che si affacceranno ai balconi per esporre un lenzuolo bianco. Davanti all'albero Falcone sarà suonato il silenzio senza la folla che di solito si ritrova qui confluendo da vari cortei. Nello stesso momento nel giardino della caserma Lungaro sarà collocata la teca di Quarto Savona Quindici con i resti contorti dell'auto della scorta e sarà rappresentata la "Corale del silenzio" del drammaturgo Vincenzo Pirrotta con la partecipazione di Salvo Ficarra e Valentino Picone, di attori del teatro Biondo e di alcuni musicisti. 

 

LA STORIA, I PROCESSI, I MISTERI

Un attentato contro Giovanni Falcone era temuto, quello contro Borsellino apparve dolorosamente annunciato: entrambi si consumarono in un contesto di incapacita’ e complicita’ che va ben oltre il livello della mafia, in un quadro, certificato da una sentenza, di “colossale depistaggio”.

Il verdetto del processo sulla trattativa Stato-mafia, del 20 aprile 2018, con l’Appello iniziato poco piu’ di un anno fa e ripreso lunedi’ scorso dopo la pausa imposta dal Covid-19, ha aperto scenari inediti. La trattativa, stabilisce quella decisione, c’e’ stata: pezzi di istituzioni e i vertici di Cosa nostra avrebbero negoziato mutue concessioni, condizionato scelte e uomini, e accelerato l’epilogo tragico del 19 luglio.

  Il 23 maggio del 1992, Giovanni Falcone, direttore degli Affari penali del ministero di Grazia e Giustizia e candidato alla carica di procuratore nazionale antimafia, era appena atterrato all’aeroporto di Punta Raisi con la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato.

Alle 17.58, sull’autostrada Trapani-Palermo, nei pressi di Capaci, la tremenda esplosione che li uccise con gli uomini della scorta. Circa 500 chili di tritolo piazzati dentro un canale di scolo esplosero mentre transitavano le Croma. La prima auto blindata – con a bordo i poliziotti Antonino Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo – venne scaraventata oltre la carreggiata opposta di marcia, su un pianoro coperto di ulivi. La seconda Croma, guidata dallo stesso Falcone, si schianto’ contro il muro di detriti della profonda voragine aperta dallo scoppio. L’esplosione divoro’ un centinaio di metri di autostrada.

Poco piu’ di un mese dopo, il 25 giugno, Paolo Borsellino denuncio’ la costante opposizione al lavoro e al metodo di Falcone di parti consistenti delle istituzioni: “Secondo Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone comincio’ a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione. Oggi che tutti ci rendiamo conto di qual e’ stata la statura di quest’uomo, ci accorgiamo come in effetti il Paese, lo Stato, la magistratura che forse ha piu’ colpe di ogni altro, comincio’ a farlo morire il primo gennaio del 1988, quando il Csm con motivazioni risibili gli preferi’ il consigliere Meli”. A un certo punto, racconto’ Borsellino, “fummo noi stessi a convincere Falcone, molto riottoso, ad allontanarsi da Palermo. Cerco’ di ricreare in campo nazionale e con leggi dello Stato le esperienze del pool antimafia. Era la superprocura”.

 

La mafia “ha preparato e attuato l’attentato del 23 maggio nel momento in cui Giovanni Falcone era a un passo dal diventare direttore nazionale antimafia”. Paolo Borsellino, 51 anni, da 28 in magistratura, procuratore aggiunto nel capoluogo siciliano dopo aver diretto la procura di Marsala, pranzo’ a Villagrazia con la moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia. Poi si reco’ con la sua scorta in via D’Amelio, dove vivevano la madre e la sorella. Una Fiat 126 parcheggiata nei pressi dell’abitazione della madre con circa cento chili di tritolo a bordo, esplose al passaggio del giudice, uccidendo anche i cinque agenti. Erano le 16.58. L’esplosione, nel cuore di Palermo, venne avvertita in gran parte della citta’.

L’autobomba uccise Emanuela Loi, 24 anni, la prima donna poliziotto in una squadra di agenti addetta alle scorte; Agostino Catalano, 42 anni; Vincenzo Li Muli, 22 anni; Walter Eddie Cosina, 31 anni, e Claudio Traina, 27 anni. Unico superstite l’agente Antonino Vullo.

 Dopo 28 anni restano tanti misteri. La sentenza di primo grado del processo Stato-mafia, che ha condannato boss, ex alti ufficiali del Ros come Mario Mori e politici come Marcello Dell’Utri, a giudizio di molti ha dato linfa e impulso a nuove inchieste a Caltanissetta sulle stragi. Tre poliziotti sono a processo con l’accusa di essere i tasselli di una complessa strategia di depistaggio delle indagini sull’eccidio di via D’Amelio. 

Il 20 febbraio e’ stata sentita come teste Ilda Boccassini, ex pm a Caltanissetta da ottobre ’92 a dicembre ’94, che ha parlato di “prova regina inconfutabile circa il fatto che Scarantino stava dicendo delle sciocchezze: si era ancora in tempo per tornare indietro e fermarsi”. Non lo si fece. Lo scorso novembre si e’ concluso in appello il quarto processo per la strage di via D’Amelio. La Corte ha confermato la sentenza di primo grado, condannando all’ergastolo i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino, imputati il primo come mandante ed il secondo come esecutore della strage, e a 10 anni i falsi pentiti Francesco Andriotta e Calogero Pulci, accusati di calunnia. Cosi’ come aveva fatto la Corte d’assise anche in appello i giudici hanno dichiarato estinto per prescrizione il reato di calunnia contestato a Vincenzo Scarantino. Prendera’ il via nei prossimi giorni, il 26 maggio, in Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta, la requisitoria nei confronti di cinque imputati accusati di aver ricoperto un ruolo nella strage di Capaci: i boss Salvo Madonia, Giorgio Pizzo, Cosimo Lo Nigro, Lorenzo Tinnirello e Vittorio Tutino.

I primi quattro, in primo grado, sono stati condannati all’ergastolo; assolto Tutino per non aver commesso il fatto. Per l’accusa, il boss palermitano di Cosa nostra Salvo Madonia sarebbe stato uno dei mandanti della strage, mentre gli altri sarebbero stati coinvolti nella fase esecutiva dell’attentato. Nel corso del processo, il pentito Francesco Geraci ha detto che “oltre a dovere uccidere il giudice Giovanni Falcone, si dovevano eliminare Maurizio Costanzo, Michele Santoro e Pippo Baudo per allontanare l’attenzione dalla Sicilia e creare un certo allarme nel centro Italia”. Ognuno “aveva un compito ben preciso e Messina Denaro diede 5 milioni di lire ciascuno per quella trasferta. A un certo punto arrivo’ l’ordine di tornare in Sicilia”.

L’ULTIMO PADRINO 

Dal marzo 2017 da latitante e’ a giudizio a Caltanissetta per le stragi del ’92. E’ accusato di esserne uno dei mandanti. Durante l’udienza preliminare, il pubblico ministero aveva sostenuto che Messina Denaro prese parte a una riunione della commissione di Cosa nostra alla fine del ’91 nella sua Castelvetrano, in cui Riina diede il via alla strategia stragista. Il capomafia, inoltre, avrebbe inviato a Roma, su ordine di Riina, diversi killer per uccidere Falcone nei primi mesi del ’92, ma la missione falli’. All’apertura del procedimento, il pm aveva chiesto di interrogare l’imputato Messina Denaro… aggiungendo che era “un auspicio”. L’accidentato cammino della verita’ e della giustizia non e’ finito. 


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