I Miserabili. Un potentissimo esordio che tra action e sguardo antropologico ci restituisce la vita quotidiana delle periferie dimenticate

di EMILIANO BAGLIO 19/05/2020 ARTE E SPETTACOLO
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Premio della Giuria (ex aequo con Bacurau) al Festival di Cannes 2019.

Disponibile in streaming on demand su www.miocinema.it e su Sky.

 

“Il problema non è la caduta ma l’atterraggio”.
Sono passati 25 anni da L’odio, il film che rivelò Mathieu Kassovitz, ma nelle periferie parigine non sembra cambiato nulla.

I miserabili, esordio alla regia di Ladj Ly, narra due giorni nella vita di tre poliziotti che operano a Montfermeil, uno dei luoghi del romanzo di Victor Hugo.

Per il brigadiere Ruiz (Damien Bonnard) è il primo giorno, il suo Training day, accanto ai veterani Chris (Alexis Manenti) e Djibril Zonga (Gwada).

In questo squallido sobborgo, uguale a tanti altri, tra palazzi fatiscenti e spazzatura si muove una variegata umanità di ultimi, di reietti, di esclusi dalla società che sopravvivono come possono, spesso ai margini della legalità ed oltre.

Ci sono gli zingari con il loro circo ai quali è stato rubato un cucciolo di leone.

C’è il “sindaco” della città, che in realtà è una sorta di boss del quartiere, incaricato di mantenere l’ordine a suon di mazzette.

C’è Salah, ex criminale redento che ora cerca di predicare la pace e al quale ci si rivolge in caso di bisogno.

Ci sono altri criminali collusi con la polizia.

E poi ci sono loro, i bambini, Issa (Issa Perica) ed i suoi amici, le vittime di questo sistema.

Nel quartiere, a parte il degrado, l’immondizia ed un probabile futuro da criminali già scritto, non c’è nulla, se non l’Islam, che di fatto è l’unica istituzione presente.

Come da tradizione la polizia è arrogante e violenta, soprattutto Chris che si comporta come uno sceriffo e al quale si contrappone il tentativo di rimanere umano di Ruiz.

In mezzo il pianto serale che ci mostrerà la fragilità di Gwada in una delle più belle sequenze di questo esordio potente e vibrante; parliamo della scena in cui i nostri tre tornano a casa mostrando allo spettatore tutta la loro disperata solitudine.

Ladj Ly realizza un action movie incalzante, tra camera a mano e riprese aeree realizzate tramite droni, al centro del quale c’è questo pezzo di mondo che è il vero protagonista di una pellicola capace di sposare l’esperienza di documentarista con la lezione del cinema americano (viene subito in mente Detroit di Kathryn Bigelow http://www.euroroma.net/6427/ARTE%20E%20SPETTACOLO/detroit-kathryn-bigelow-alle-prese-con-un-racconto-politico-e-di-denuncia-.html).

Il risultato è un esordio stupefacente che ci restituisce le infinite sfaccettature dei suoi tanti personaggi attraverso pochissimi tocchi che dimostrano la capacità rara di far emergere le psicologie di questa folla tramite le azioni, i luoghi e gli sguardi.

C’è una tensione continua che percorre l’intera vicenda, una miccia pronta a far esplodere tutto in una sequenza finale che è un vero e proprio saggio di cinema action, con una gestione degli spazi perfetta da consumato maestro.

E poi c’è quello sguardo, capace di racchiudere un intero mondo.

Perché, ancora una volta, il problema è l’atterraggio e niente può andare bene in questa porzione di mondo, forse perché, come ricorda il regista alla fine, citando Hugo, “non ci sono erba cattive o uomini cattivi, ci sono solo cattivi coltivatori”.

 

EMILIANO BAGLIO


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