I servizi sanitari in Italia. Tagli e mancati investimenti. La sanità nel Sud Italia. Dall'emergenza cronica all'emergenza Coronavirus.

di redazione 13/03/2020 ECONOMIA E WELFARE
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Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il nostro Paese ha dimezzato i posti letto per i casi acuti e la terapia intensiva, passati da 575 ogni 100 mila abitanti ai 275 attuali. Un taglio del 51% operato progressivamente dal 1997 al 2015, che ci porta in fondo alla classifica europea.

In testa la Germania con 621 posti, più del doppio (qui sotto l’infografica interattiva dell’Oms sui posti letto per casi acuti persi nei diversi Paesi dal 1997 al 2015).Mentre le cronache raccontano del personale sanitario allo stremo, occorre ricordare che la sanità pubblica nazionale ha perso, tra il 2009 e il 2017, più di 46 mila unità di personale dipendente. Oltre 8.000 medici e più di 13 mila infermieri, secondo la Ragioneria di Stato. Cifre che da sole possono far comprendere come gli ospedali e i pronto soccorso, già sotto pressione al nord, potrebbero non essere in grado di reggere la diffusione dell’epidemia. Specie nelle regioni del centro e del sud, ancora meno attrezzate e con minore personale. Come denunciato dal presidente dell’Associazione Medici Dirigenti, (Anaoo), le strutture ospedaliere hanno perso, infatti, 70 mila posti letto, solo negli ultimi 10 anni. 

Secondo l’ultimo annuario statistico del ministero della Salute disponibile, nel 2017, il servizio sanitario nazionale disponeva di circa 191 mila posti letto per degenza ordinaria. Solo 3,6 posti letto ogni 1.000 abitanti, che scendono a 3,0 ogni 1.000 abitanti, dedicati ai casi acuti, confermando la media indicata dall’OMS.

La maggioranza è in strutture pubbliche, mentre il  23,3% è collocato nelle strutture private accreditate. Scendendo nel dettaglio, però, complessivamente, sono solo 5.090 posti letto di terapia intensiva  (8,42 per 100.000 abitanti, quindi 0,00842 ogni 1.000 persone), 1.129 posti letto di terapia intensiva neonatale (2,46 per 1.000 nati vivi), e 2.601 posti letto per unità coronarica (4,30 per 100.000 abitanti).

Eppure, secondo la relazione della Corte dei Conti al Parlamento  con la legge di bilancio approvata il 30 dicembre 2018, sono state incrementate le risorse da destinare al fabbisogno sanitario. Dai 114,4 miliardi di euro stanziati nel 2019, ai 116,4 miliardi di euro per il 2020, fino ai 117,9 miliardi previsti per il 2021. Ma, come si legge nella stessa relazione, gli investimenti, proprio da parte degli enti locali, sono stati ridotti del 48% tra il 2009 e il 2017. E con essi le risorse umane, in calo del 5,3%.

Nel 2017, scrive la Corte dei Conti, in base ai risultati d’esercizio degli enti sanitari, la spesa sanitaria è stata pari a 1.888 euro pro capite. Con un divario ampio tra nord e sud. Tutte le regioni meridionali, ad eccezione del Molise (2.101 euro pro capite), spendono meno della media nazionale. In particolare la Campania (1.729 euro), la Calabria (1.743 euro), la Sicilia (1.784 euro) e la Puglia (1.798 euro). Mentre la spesa pro capite più alta si registra nelle Province autonome di Bolzano (2.363 euro) e Trento (2.206 euro), in Molise (2.101 euro), Liguria (2.062 euro), Valle d’Aosta (2.028 euro), Emilia Romagna (2.024 euro), Lombardia (1.935 euro), Veneto (1.896 euro).

Fonte: Referto al Parlamento sulla gestione finanziaria dei servizi sanitari regionali, Corte dei Conti 2019

L’Italia spende in sanità meno di Germania, Francia e Regno Unito

Globalmente, la spesa sanitaria sostenuta dallo Stato italiano, nel 2017, è stata pari al 6,6% del Pil. Valore inferiore di circa tre punti percentuali a quella in Germania (9,6%) e Francia (9,5%), di un punto percentuale rispetto al Regno Unito. E di poco superiore a quella di Spagna (6,3%), Portogallo (6,0%) e Repubblica Ceca (5,8%).

Sempre secondo la Corte dei Conti, i dati Ocse relativi all’arco temporale 2000/2017 mostrano, soprattutto a partire dal 2009, la progressiva perdita di peso relativo del comparto sanitario sul Pil,  rispetto a quello nei maggiori paesi europei. Se nel 2000 Francia e Germania spendevano per il servizio sanitario due punti percentuali di Pil in più rispetto all’Italia (rispettivamente 7,5%, 7,7% e 5,5%), nel 2017 il divario è cresciuto a tre punti percentuali.

Anche l’indicatore della spesa pro capite mostra il sottodimensionamento relativo di quella italiana. Nel 2017 la spesa pubblica italiana (espressa in dollari a parità di potere di acquisto) è stata pari a 2.622 dollari, ossia inferiore del 35% a quella francese (4.068 dollari) e del 45% a quella tedesca (4.869 dollari), con un divario che cresce, rispetto a quello dell’anno 2000, rispettivamente di 10 e di 15 punti percentuali.

LA REALTA' SANITARIA DEL SUD

Una corsa contro il tempo nella speranza che i contagi rallentino e i piani d’emergenza che si stanno definendo riescano a reggere l’urto con il picco che, ne sono certi tutti, arriverà tra molti giorni. Dalla Puglia che ha affidato il coordinamento all’epidemiologo Pier Luigi Lopalco alla Sicilia che ipotizza di allestire un ospedale all’interno di una nave da crociera, le sei regioni del Sud trattengono il fiato e accelerano con riordino e riapertura degli ospedali, nuove forniture e assunzioni di personale per permettere ai sistemi sanitari di poter gestire il diffondersi dell’epidemia di coronavirus se i numeri dovessero ingrossarti a dismisura rispetto ai 455 casi registrati fino a giovedì sera. Fino a poche settimane fa i posti in terapia intensiva disponibili in tutto il Mezzogiorno erano 1.076, ma tra accordi con la sanità privata e potenziamento delle strutture pubbliche a breve ce ne saranno altri 510, poco meno del 50 per cento in più. Un risultato raggiunto in appena 15 giorni e che va avanti, augurandosi che nel frattempo la ‘blindatura’ decisa dal governo freni o almeno diluisca nel tempo le positività.

Il Sud Italia ha dovuto fronteggiare l’arrivo di numerose persone rientrate dalle regioni del nord dopo l’annuncio del decreto sulla zona rossa di sabato notte. Circa 9.000 sono arrivate in Puglia, 20 mila sono i rientri segnalati dal governatore siciliano Nello Musumeci; il presidente Vincenzo De Luca, ha fatto presente che, nel caso esplodesse il contagio, la regione Campania avrebbe a disposizione solo «320 posti in terapia intensiva» per un fabbisogno di «almeno 590 in più». Più dura, invece, la neo eletta presidente della Regione Calabria, Jole Santelli, che considera la propria «sanità al collasso», e non certo in grado di «reggere come in Lombardia».


«Noi non sappiamo che scenario si andrà a delineare nelle prossime settimane», ha spiegato in un’intervista a Linkiesta Giuseppe Foti, direttore del dipartimento Medico Polispecialistico dell’Ospedale Bianchi-Melacrino-Morelli di Reggio Calabria. «La nostra struttura è pronta per ricevere ulteriori pazienti, anche se tutto dipende dai numeri con i quali ci dovremo rapportare. Abbiamo redatto un piano d’emergenza, ma davanti a un fenomeno come quello lombardo è chiaro che ci sarà una grande sofferenza».

Negli ultimi anni nel sud e nelle isole sono stati chiusi 42 piccoli centri ospedalieri, di cui 4 solo in Calabria. Questo, oltre ad aver generato un maggior carico di lavoro sulle strutture sanitarie rimaste aperte, non ha fatto in modo che venisse rimodulato l’assetto organizzativo di queste strutture, ma viceversa agli ospedali rimasti è stata imposta una riduzione dei posti letto (in Calabria si è passati da 4,47 posti letto ogni mille abitanti a 2,98).

Secondo l’ultimo Rapporto Svimez, in Italia la spesa sanitaria pro capite è di circa 1.800 euro, contro i 2.800 nella media Ue, i 3.000 euro in Francia e Danimarca e i 3.800 in Germania. Il motivo si deve proprio al divario interno al nostro Paese: circa 1.600 euro nel Mezzogiorno, 2.000 euro nel Centro-Nord. Sempre nel Mezzogiorno il 35,6 per cento delle famiglie vorrebbe ricevere aiuto ma solo il 12,5 per cento lo riceve, mentre per la qualità dei servizi sociali e sanitari, il Sud ha il più elevato tasso di emigrazione ospedaliera verso le regioni del Centro-Nord. E adesso che questo esodo non è più possibile, ma, anzi, si assiste a rientri di massa giornalieri, a emergere con forza sarà per l’appunto anche l’urgenza dei posti letto, in quanto la dotazione complessiva per 100.000 abitanti è di 791 nel Centro-Nord e 363 nel Mezzogiorno.

A rendere più fragile l’intero settore, si aggiunge anche l’ingerenza della criminalità organizzata. Dal 1991 al 2019, secondo i dati dall'associazione Avviso Pubblico, sono state sciolte due Asl e quattro aziende ospedaliere per infiltrazioni mafiose, due in Campania e due in Calabria. In particolare nel corso del 2019, l’Asp (Azienda Sanitaria Provinciale) di Catanzaro è stata sciolta per diciotto mesi e affidata a una commissione di gestione straordinaria alla luce di quanto emerso con l’inchiesta “Quinta Bolgia”. Il provvedimento è avvenuto solo sei mesi dopo lo scioglimento per mafia anche dell’azienda sanitaria di Reggio Calabria. Ben 126 arresti di camorra, invece, hanno segnato nell’anno passato la sanità Campania, molti dei quali hanno riguardato proprio l’ospedale San Giovanni Bosco di Napoli.

«La rete sanitaria del Sud è meno efficiente di quella lombarda, che non ha fatto tagli nel corso degli anni», dice Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici. «La soluzione da attuare per tamponare ed evitare che il contagio si ripeta anche nelle regioni meridionali è seguire le linee guida governative. Basandomi sulle strutture a disposizione e in termini di attrezzature e personale, è difficile immaginare cosa possa succedere al Sud se l’epidemia prendesse il sopravvento».

 

Le Regioni del Sud, dall’emergenza cronica all’emergenza Coronavirus

Puglia

In Puglia, la task force guidata da Lopalco e il sostegno dei privati
Una delle prime regioni del Mezzogiorno ad aumentare la capienza dei reparti è stata la Puglia. La task force costituita dal governatore Michele Emiliano partiva da una base di 150 letti nei reparti di terapia intensiva. Si è già arrivati a 209 e si conta di raggiungere i 300 posti. Si è riusciti a ricavare, inoltre, altri 680 posti letto per chi necessiterà di ospedalizzazione dopo aver contratto il Covid-19. Al vaglio c’è anche la riapertura degli ospedali di San Pietro Vernotico e Terlizzi per chi sarà in via di guarigione, mentre la sanità privata è disponibile a fornire altri 495 letti. Da qui, i calcoli illustrati mercoledì dalla Regione Puglia che ha affidato il coordinamento all’epidemiologo brindisino Pier Luigi Lopalco. La previsione è di un picco di contagi tra fine marzo e gli inizi di aprile: l’obiettivo è contenere a circa 2000 i casi di positività. Per metà di questi, viste le percentuali finora registrate nello ‘scenario Lombardia’, dovrebbe essere sufficiente l’isolamento domiciliare. Per la restante metà sarà necessario il ricovero, nel 15% dei casi in terapia intensiva. Se le previsioni verranno rispettate – al momento sono 98 le persone infette – il sistema sanitario pugliese reggerà l’urto.

 

Calabria

La governatrice Jole Santelli era stata chiara nelle scorse settimane: “Una sanità come quella calabrese, vessata da anni da tagli selvaggi, non è in grado di reggere una situazione di totale emergenza”. Così, nonostante giovedì pomeriggio si contassero solo 33 casi, è già partita la corsa per aumentare i posti disponibili nelle terapie intensive degli ospedali. La base di partenza era 107 in 12 strutture: Cosenza la città più protetta con 17 posti, l’ospedale di Castrovillari come fanalino di coda con appena 2 letti. È quindi scattato il piano di emergenza approntato dal commissario straordinario Saverio Cotticelli che prevede l’attivazione di 400 posti in caso di necessità. Altri 90 letti saranno approntati nella zona nord tra Cosenza, Castrovillari, Rossano, Cetraro, il Pugliese Ciaccio di Catanzaro, il Mater Domini di Catanzaro, Lamezia, Crotone, Reggio Calabria, Polistena e Vibo Valentia. Altri 110 nell’area nord verranno allestiti nelle strutture di Paola, Rogliano e Rossano, mentre 100 posti saranno a disposizione dell’area centro nelle strutture di Germaneto e Tropea. Nell’area sud saranno attivati 100 posti negli ospedali strutture di Gioia Tauro, Locri, Melito Porto Salvo. La Regione ha anche strutturato un piano per le quarantene che prevede l’utilizzo, oltre ad ambienti di proprietà regionale, anche una collaborazione con l’Agenzia dei Beni Confiscati e l’Esercito per individuare strutture idonee.

 

Sicilia

In Sicilia l’idea di un ospedale galleggiante
L’ultimo passo del governatore Nello Musumeci è stato quello di iniziare a pensare a un piano B di fronte all’offerta attuale del sistema sanitario regionale e tenendo presente i massicci rientri dei fuorisede dalle regioni del Nord durante le ultime settimane, nonostante ad oggi i contagi sull’isola siano 111. “Ho parlato con l’Autorità portuale di Palermo che mi conferma esserci un armatore disposto a mettere al molo una nave crociera con un centinaio di posti letto e personale sanitario”, ha spiegato negli scorsi giorni. Un ospedale galleggiante, insomma, qualora il piano d’emergenza già attivato non dovesse essere sufficiente a contenere la possibile ondata di contagi. La Regione, intanto, ha chiesto aiuto anche alle cliniche private. Come spiegato da Ilfattoquotidiano.it negli scorsi giorni, infatti, le strutture sanitarie siciliane dispongono di 252 posti letto in reparti di Malattie infettive. Solo il 25% però è in isolamento, oltretutto concentrati soprattutto nella provincia di Catania e quasi già saturi prima della pandemia. Su base regionale, invece, i posti letto in terapia intensiva sono 346, ma appena 50 in isolamento. E la distribuzione non è omogenea sul territorio: Enna conta appena 6 posti, Caltanissetta 12 posti, a Ragusa e Messina sono 16, idem ad Agrigento, che però non ha un reparto di Malattie infettive, 13 ne ha a disposizione Trapani, 18 la provincia di Siracusa.

Campania

La Campania si prepara per reggere 3mila contagi
Trenta milioni di euro sul piatto per passare da 320 a quasi 500 posti in pochi giorni. Così la Regione Campania ha deciso di prepararsi alla possibilità di un incremento delle positività al coronavirus assai maggiore rispetto ai 200 pazienti infetti registrati fino a giovedì pomeriggio. Se la crescita dovesse diventare esponenziale, sarà necessario implementare i reparti di terapia intensiva e il piano ideato dal governatore Vincenzo De Luca si sta strutturando su una scenario di 3mila contagiati totali, con la possibilità di trasformare l’ospedale Loreto Mare e il Cotugno di Napoli in Covid hospital.

Basilicata

La Basilicata ha 49 posti in terapia intensiva: “Ci stiamo attrezzando”
Due reparti di malattie infettive per un totale di 30 posti letto, altri 49 pazienti che possono essere assistiti in terapia intensiva. Come spiega a Ilfattoquotidiano.it Ernesto Esposito, responsabile della task force per contrastare il coronavirus, sono questi i numeri che la Regione Basilicata può schierare: “Ci stiamo attrezzando per fronteggiare un’emergenza simile a quella della Lombardia, il piano è in via di definizione in questi giorni”. E sarà attivo celermente, promette, anche se ad oggi la sua regione è la meno colpita d’Italia con 8 positivi: “Contiamo di completare l’80% del piano in 7-10 giorni, per il restante 20 per cento ci vorrà un po’ più di tempo”.

Molise

I 30 posti del Molise, che valuta la riapertura di 2 ospedali
Trenta posti disponibili tra pubblico e privato, con la possibilità di arrivare a 45. Il Molise – che finora ha registrato 16 contagi – parte da questi dati e per questo ha predisposto il piano per la riapertura di due ospedali in caso di necessità. Si tratta delle strutture di Larino e Venafro, che si aggiungerebbero al Veneziale di Isernia, al Cardarelli di Campobasso e al San Timoteo di Termoli. Al momento i privati – gruppi Neuromed e Cattolica – hanno dato il via libera a 17 posti di terapia intensiva. Nel dettaglio – come spiegano i media regionali – si tratta di 11 letti nell’Irccs di Pozzilli, quattro dei quali in sub-intensiva, e di altri 6 al Gemelli Molise. Una dotazione che, in caso di necessità, potrebbe ancora aumentare. Nei due centri privati verrebbero ospitati i pazienti che necessitano di essere curati in terapia intensiva ma non sono affetti da Covid-19, così da trasformare le strutture pubbliche in hub per la cura del coronavirus.

 

Utilizzare le navi come ospedali

I posti letto scarseggiano non solo in terapia intensiva. Per far fronte all’emergenza arrivano proposte di ospedali “alternativi”, come traghetti e navi da crociera di lusso. E alcune sembrano quasi operative. Da Nord a Sud, passando per il Centro, si moltiplicano le idee per correre ai ripari e garantire a tutti le cure, per chi ha il virus o altre patologie.

Le buone notizie sul coronavirus iniziano ad arrivare, dal calo dei contagi nelle zone più colpite al farmaco che sembra funzionare sui pazienti gravi. Tuttavia il numero dei positivi continua ad aumentare in linea generale e l’Italia è in reale emergenza posti letto, non solo della terapia intensiva.

Da un lato, infatti, molti contagiati Covid-19 non hanno bisogno di terapia intensiva ma comunque di un ricovero, dall’altro molte altre patologie, purtroppo, necessitano ospedalizzazione. E il nostro Sistema Sanitario è realmente sull’orlo di un collasso.

In Cina, per far fronte all’emergenza virus da cui sembra stia per uscire, sono state costruite molte strutture “improvvisate” che hanno garantito assistenza. In Italia la proposta è usare traghetti e navi da crociera di lusso, sfruttando la disponibilità delle imbarcazioni ferme a causa del blocco degli spostamenti.

Come riporta ‘Il Secolo XIX’, starebbe per diventare esecutivo un progetto di “trasformazione” in ospedali attrezzati anche con la terapia intensiva di un’ammiraglia di Msc Crociere e di altri due cruise ferry. Le navi-ospedale diventerebbero operative tra una settimana o 10 giorni.

L’idea, partita dai vertici di Grandi Navi Veloci (Gnv) controllata da Msc Crociere, sarebbe stata immediatamente accolta da Gianluigi Aponte, proprietario della compagnia genovese e leader di Msc in accordo con il sindaco di Genova Marco Bucci, sostenuta dall’amministratore delegato del Rina Ugo Salerno e supervisionata dai responsabili della Protezione Civile e dal presidente della Regione Liguria Giovanni Toti.

Le ipotesi sembrerebbero 3: trasformare le navi in punto d’appoggio per pazienti non colpiti dal virus, liberando così migliaia di posti letto negli ospedali “a terra” in Liguria e nel resto del Nord Italia, usarle come luogo di osservazione di pazienti positivi al test ma non gravi, oppure addirittura per assistere coloro affetti da patologia Covid-19 conclamata.

E non sarebbe questa l’unica idea.

“Ho parlato con l’Autorità portuale di Palermo che mi conferma esserci un armatore disposto a mettere al molo una nave crociera con un centinaio di posti letto e personale sanitario qualora dovessimo arrivare al piano B – ha dichiarato ad Ansa il Presidente della Regione Sicilia Nello Musumeci – Siamo pronti a ogni evenienza, fino a questo momento comunque non c’è stato in Sicilia alcun decesso e quindi continuiamo a sperare”.

La Sicilia è stata infatti particolarmente interessata dall’esodo di persone dalla Lombardia, dove ancora oggi permane il numero più alto di contagiati dal virus, avvenuto a seguito dell’annuncio della chiusura della regione come misura di contenimento del contagio. E c’è molta paura che questo possa provocare un dilagare di infezioni, che potrebbero mettere in seria difficoltà il Sistema Sanitario Regionale

ALCUNE RIFLESSIONI

La conferma arriva anche dall’Ocse. Il nostro servizio sanitario pubblico resta, per qualità ed efficacia delle prestazioni sanitarie, uno dei migliori in Europa e al mondo. Ma gli indicatori qualitativi e quantitativi dei servizi sanitari regionali, disegnano un sistema con molte disuguaglianze. Differenze che spiegano, per esempio, i flussi di mobilità sanitaria diretti, prevalentemente, dal sud verso le regioni del nord.

Mentre dall’altra parte, segnala sempre la relazione delle Corte dei Conti, la decrescita degli investimenti ha rallentato l’ammodernamento delle apparecchiature terapeutiche. E aumentato il degrado delle infrastrutture, che è mediamente maggiore al Sud rispetto al Nord, con ricadute anche sulla qualità delle cure.

Diritto alla salute diviso tra Stato e regioni

La salute è diritto tutelato dall’articolo 32 della Costituzione italiana. Ma il complesso delle norme che regolano il sistema sanitario per garantire a tutti i cittadini, l’accesso universale all’erogazione equa delle prestazioni sanitarie, è sempre più complesso. Intanto, con la riforma del titolo V della Costituzione, varata nel 2001, la responsabilità della tutela della salute è stata ripartita tra lo Stato e le regioni. È lo Stato che ha il compito di determinare i livelli di assistenza che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale e di vigilare sulla loro effettiva erogazione.

Le regioni, invece, programmano e gestiscono in piena autonomia la sanità nell’ambito territoriale di loro competenza, avvalendosi delle aziende sanitarie locali (Asl) e delle aziende ospedaliere. Ma è sempre lo Stato che finanzia la sanità, con le risorse provenienti dalla fiscalità generale che vanno a costiture il  Fondo sanitario nazionale (Fsn). Da esso si determinano annualmente le risorse necessarie per regione e provincia autonoma. A cui si aggiungono le varie forme di compartecipazione alla spesa sanitaria da parte degli assistiti. Come i servizi a pagamento e i ticket. Oltre che le entrate proprie delle amministrazioni regionali.

Tutto ciò dovrebbe avvenire nel rispetto di quelli che sono i cosiddetti LEA, i livelli essenziali di assistenza. A cui tutte le regioni si dovrebbero attenere per garantire un uguale livello di servizi e prestazioni sanitarie. Ma così non è, tanto che dal primo gennaio 2020, è entrato in vigore un nuovo sistema di monitoraggio, varato dal ministero della Salute, che le amministrazioni regionali dovranno rispettare.

Nel 2017 il 42% del totale delle risorse finanziarie per la sanità è stato assorbito dalle regioni del Nord. Mentre il 20% è andato a quelle del Centro, il 23% al Sud, il 15% alle autonomie speciali.

Nonostante le forti azioni di controllo della spesa, ci sono ancora regioni regioni soggette ai cosiddetti « Piani di rientro». A loro vanno risorse dal fondo sanitario nazionale per il 46%. Intanto, come l’emergenza sanitaria da Coronavirus ha drammaticamente rivelato, occorrerà tornare a investire su tutta la sanità pubblica, al nord come al sud. Secondo l’Associazione Salute Diritto Fondamentale , solo per mettere in sicurezza gli ospedali e le strutture sanitarie territoriali, nelle zone ad alto rischio sismico, occorrerà stanziare almeno 32 miliardi.

 

 


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