Daniel Schechter: Safe spaces. Un film diviso tra sarcastico attacco al politicamente coretto e ritratto della solita famiglia disfunzionale e nevrotica.

Alice nella città. Eventi speciali.

di EMILIANO BAGLIO 27/10/2019 ARTE E SPETTACOLO
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Josh (Justin Long) è un giovane professore di scrittura creativa nei guai. Durante una sua lezione, infatti, ha spinto una ragazza a raccontare un episodio un po’ troppo privato col risultato di mettere in imbarazzo i compagni di classe che lo hanno messo sotto accusa.

Siamo ai tempi del #MeToo e Daniel Schechter ce lo ricorda continuamente con una pellicola che, in parte, vuole essere una commedia divertente ma capace anche di far emergere le contraddizioni di una società dominata dall’ansia del politicamente corretto.

Così l’ingenuo Josh, che forse non è mai cresciuto del tutto ed è rimasto un eterno adolescente egocentrico, improvvisamente si trova messo sotto accusa.

Tutto quello che cerca di fare per porre rimedio a quanto accaduto sembra peggiorare la situazione come ci spiega bene la scena in cui incontra alcuni suoi studenti fuori dall’istituto, si avvicina per chiarirsi ed il suo gesto viene interpretato come un’intromissione nella loro privacy.

Sono probabilmente questi gli “spazi sicuri” del titolo, quelli dove nessuno può toccarti o farti ricordare episodi spiacevoli, come capita ad una delle alunne di Josh.

Il problema è che quest’ossessione per il rispetto della privacy impedisce al professore persino di riprendere uno studente perennemente in ritardo, non consapevole del fatto che il ragazzo soffra di apnee notturne.

Schechter sembra volerci narrare un mondo che, secondo lui, va al contrario e nel quale l’autorità che dovrebbe incarnare Josh viene continuamente messa in discussione dalla scuola col risultato che sono i ragazzi a comandare.

Pare quasi un avviso su dove potrebbero portare certi eccessi della società americana contemporanea.

Proprio questo sarcasmo nei confronti dell’ansia del politicamente corretto è l’aspetto più interessante di un film che si muove su di un doppio binario.

L’altro è incarnato dalla più classica delle commedie americane indipendenti sulla classica famiglia disfunzionale.

Famiglia incarnata da Kate Berlant e da Michale Godere, rispettivamente fratello e sorella di Josh, dalla loro madre Diane (Fran Descher) e dal loro padre Jeff (Richard Schiff), che nel frattempo si è risposato.

Tutti i personaggi si ritrovano al capezzale della nonna (Lynn Cohen) che diviene il luogo in cui riflettere ognuno sulle proprie vite, sulle scelte fatte e sui legami tra parenti.

Nulla di nuovo sotto il cielo, verrebbe da dire.

Abbiamo il fratello con famiglia che sembra il più maturo dei tre, la sorella in rotta col fidanzato, una madre che deve fare i conti con una sorella assente, un padre con nuova famiglia a carico e che appare dominato da una nuova moglie francamente insopportabile.

Insomma la solita precarietà di vita e degli affetti descritta già tante altre volte, tipica di una certa commedia indipendente americana, abitata da personaggi nevrotici e fragili, che affonda le sue radici nel cinema di Woody Allen ed in quello di Noah Baumbach.

Si ride e si sorride ma forse sarebbe stato meglio concentrarsi di più sulla critica al #MeToo e al politicamente scorretto.

Ne sarebbe uscito fuori un film sicuramente più interessante.

Difficile invece comprendere come questo titolo sia finito dentro Alice nella città.

 

EMILIANO BAGLIO


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