L'agnello. Solitudine e marginalità nell'opera prima di Piredda

Festa del Cinema di Roma. Alice nella città. Concorso.

di EMILIANO BAGLIO 21/10/2019 ARTE E SPETTACOLO
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Anita (Nora Stassi) ha diciassette anni. Ha già perso la madre ed ora suo padre Jacopo (Luciano Curreli) è malato di leucemia ed avrebbe bisogno di un trapianto. Nessuno dei familiari è compatibile tranne forse suo fratello Gaetano (Michele Atzori). Jacopo e Gaetano però non si parlano da anni.

Mettiamo le mani avanti, L’agnello, opera prima di Mario Piredda, ha alcuni dei difetti tipici degli esordi; primo tra tutti l’ansia di voler dire tutto e forse anche troppo.

Detto in altri termini una vigorosa sforbiciata avrebbe giovato non poco al film che, da un certo punto in poi, comincia a perdersi e a dilungarsi quasi che il regista non avesse il coraggio di lasciare i suoi personaggi e sentisse l’esigenza di narrarci questa storia sino in fondo anche se ciò non è strettamente necessario.

Tant’è che quando si tratta di chiudere il film ci ritroviamo dinnanzi ad un finale sinceramente incomprensibile che forse vorrebbe essere metaforico ma di cui (almeno a noi) sfugge il significato.

Eppure, proprio mentre il film straborda in maniera pleonastica ecco che arriva uno di quei lampi che lo illumina.

Parliamo della scena in cui Gaetano balla in uno squallido bar abitato da maschere indimenticabili, facce e volti autentici, crudi eppure surreali.

Una scena quasi onirica eppure al tempo stesso carica di crudo realismo che sottolinea la profonda solitudine dei personaggi di questa storia.

Una solitudine ed una condizione di marginalità alle quali sembra rispondere il paesaggio sardo, aspro e battuto dal vento; fatto di montagne innevate e sassi.

Proprio la Sardegna sembra essere il cuore pulsante di quest’opera, come sottolinea la scena in cui Anita spezza il pane carasau e fa notare al nonno che ogni pezzetto ricorda la forma dell’isola.

La condizione dei personaggi, sostanzialmente degli sconfitti, degli emarginati tra cui un malato, una ragazza segnata dalla vita ed un ex tossico, sembra quasi assurgere a simbolo di un’intera terra, arida, dura, aspra e spigolosa.

Forse L’agnello vorrebbe essere addirittura un atto di accusa nei confronti della servitù militare cui è stata sottoposta l’isola.

L’esercito ed i terreni militari vietati ai civili sono onnipresenti nel film e sono continuamente percepiti come un’entità estranea capace solo di sottomettere la popolazione locale.

Piredda si spinge anche più in là lasciando intendere che i genitori di Anita possano essersi ammalati proprio a causa degli esperimenti militari, con un chiaro riferimento al poligono di Salto del quirra.

Accanto a queste suggestioni il regista costruisce la più classica delle storie di formazione, ben riassunte dalla metafora dell’agnello malato che, preso in cura da Anita, riuscirà a guarire e a crescere; seguendo così il destino della ragazza.

Tuttavia, oltre alla capacità di riprendere il paesaggio elevandolo a coprotagonista del film ed oltre alcune ottime sequenze, ciò che sorprende di più nel film sono da un lato la capacità nel dirigere gli attori, tutti eccellenti e soprattutto il discorso sulla famiglia che è al centro dell’opera.

Si tratta di una famiglia allargata in cui entrano a far parte l’amore impossibile tra Jacopo ed una malata come lui, il legame tra nonno e nipote o infine l’amica di Anita, tutti uniti da un profondo affetto e dalla condivisione del dolore.

Al centro ci sono Anita ed il padre Jacopo il cui rapporto è uno dei più teneri ed intensi visti sugli schermi italiani degli ultimi anni.

Piredda riesce a restituire pienamente l’amore profondo e la complicità che li lega e che esplode in sequenze come quella in cui Anita gioca con il padre in sedia a rotelle.

Questo cuore pulsante pieno di gioia ci sembra essere l’animo più profondo di un film che conferma ancora una volta il cinema sardo come uno dei più interessanti e vitali del nostro paese.

 

EMILIANO BAGLIO


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