19 luglio 1992. A ventisette anni dalla Strage di via D'Amelio i misteri della morte di Paolo Borsellino

di redazione 19/07/2019 CULTURA E SOCIETÀ
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Ventisette anni dopo la strage di via D'Amelio, Palermo ricorda il giudice Paolo Borsellino, i cinque agenti della polizia di Stato di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Era il 19 luglio 1992, quando una Fiat 126 contenente circa 90 chilogrammi di esplosivo saltò in aria, sotto il palazzo dove viveva la madre di Borsellino e presso la quale il giudice quella domenica si stava recando in visita.

C'è una “scatola nera” delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio che finora non è stata analizzata compiutamente e che potrebbe dare un contributo importante per comprendere che cosa è accaduto in quei 57 giorni che separano la strage in cui morì Giovanni Falcone il 23 maggio da quella in cui invece venne fatto saltare in aria Paolo Borsellino il 19 luglio. Quella scatola nera è il “master delle intercettazioni e tutti gli atti del gruppo investigativo Falcone e Borsellino” a quel tempo guidato dal capo della Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, oggi defunto ma accusato di aver messo in piedi un vero e proprio depistaggio nelle indagini sulla strage di Via D’Amelio grazie anche, ma non solo, al finto pentimento di Vincenzo Scarantino.

Il suggerimento alla commissione Antimafia

 
Quella scatola nera va recuperata e messa a disposizione di tutti. Un suggerimento dato alla commissione Antimafia della scorsa legislatura da Gianfranco Donadio, magistrato che per anni alla Direzione nazionale antimafia si è occupato della vicenda delle stragi nel nostro Paese: quelle del ’92 ma anche le stragi nel continente del 1993. E così Donadio, quasi sul finire di una lunga audizione in Antimafia nel novembre del 2017, dà alla presidente Rosy Bindi un suggerimento: «Signora presidente - dice il magistrato -, per una memoria, è da acquisire il master delle intercettazioni e tutti gli atti del gruppo investigativo Falcone e Borsellino. Sono tante carte, ma le metodologie di scansione oggi ci consentono di affrontare anche estese elaborazioni. Quelle carte sono la vera scatola nera delle indagini su Falcone e Borsellino. Si trovano in un hangar della polizia. Io credo che le carte dei processi di stragi consentano di conservare la memoria di questa storia del Paese. Io sono rimasto molto male quando ho scoperto che, tra le carte che cercavamo, c’erano dei vuoti». Insomma, sembra voler dire il magistrato, quelle carte vanno acquisite al più presto prima che sia troppo tardi.

Le carte restano nel deposito della polizia

Documenti che, a quanto ci risulta, potrebbero essere ancora depositate nell’hangar della polizia di cui ha parlato Donadio: la richiesta per acquisirle non è stata fatta dalla presidente Bindi ma è facile immaginare che venga fatta il prima possibile (insieme ad altre carte che riguardano anche altri misteri del nostro Paese) dall’attuale presidente della commissione parlamentare Antimafia Nicola Morra nell’ambito della politica di chiarezza e trasparenza inaugurata con la discovery di tutti gli atti a disposizione della commissione che ora possono essere consultati con un semplice motore di ricerca. Carte importanti, quelle cui si riferisce Donadio, solo in parte finite nei numerosi processi celebrati in questi anni, perché frutto di un lavoro certosino fatto da Gioacchino Genchi, oggi avvocato, ma in quel momento dirigente della polizia di Stato a Palermo e nel gruppo Falcone-Borsellino.

Genchi in quegli anni era direttore della zona telecomunicazioni del ministero dell’Interno per la Sicilia occidentale e dirigente del nucleo anticrimine sempre per la Sicilia occidentale. Ma soprattutto Genchi era ed è un superesperto di informatica e intercettazioni ed è lui che crea l’architrave dei controlli operativi sui telefoni nell’immediatezza delle stragi, controllando le utenze delle vittime ma soprattutto dei boss: una vera e propria rete calata su Palermo. Peccato che quel lavoro non sia stato completato: Genchi viene fermato e lascia il gruppo guidato da La Barbera. Quel materiale raccolto in quei drammatici mesi, sistematizzato e organizzato potrebbe cominciare a “parlare” raccontandoci pezzi di verità fin qui rimaste nascoste e che rischiano di cadere nell’oblio. Già nel dicembre 1992 Genchi, analizzando i dati di traffico dei giorni delle stragi , aveva proceduto all’identificazione di Gaspare Spatuzza, individuando pure il numero del cellulare di cui si era servito per contattare i suoi complici. Genchi si era riservato di eseguire su quella e su altre utenze ulteriori accertamenti, che non sono stati più proseguiti dopo la sua fuoriuscita dal gruppo nel maggio 1993. Insomma la responsabilità di Spatuzza era già stata individuata ma era più utile o più comodo a qualcuno far cadere la responsabilità su Scarantino con una sceneggiata smentita dai processi. 

E non è ancora finita. Ci si chiede dunque oggi cosa potrebbe venir fuori riprendendo in mano i 136mila record raccolti con le intercettazioni nel dopo stragi oppure rileggendo tutti i fascicoli e i rapporti del Gruppo Falcone Borsellino. «Bisogna evitare che continuino a formarsi altri vuoti - ha detto Donadio alla presidente Bindi in quell’audizione -: uno dei pochi soggetti istituzionali che può salvare la memoria di queste vicende è la commissione parlamentare Antimafia. Non vedo alternative».

Sul Fatto Quotidiano sono riportate le dichiarazioni del pm palemritano Tartaglia che parla anche della Trattativa Stato mafia

L'accelerazione della strage di Via D’Amelio è certa, bisogna chiedersi quale fu il motivo. La lettura che noi avevamo dato è che il giudice Paolo Borsellino potesse rappresentare un ostacolo alla prosecuzione della trattativa Stato-mafia. E' la sentenza di primo grado dello stesso processo Trattativa si avvicina molto a questa tesi”.

A dirlo è il pm, già nel pool di Palermo, Roberto Tartaglia, che sostenne l’accusa nel processo sulla stessa Trattativa e che oggi ha lasciato la Procura per diventare consulente della Commissione Antimafia. Grazie anche al suo lavoro, l’istituzione presieduta da Nicola Morra ha deciso di togliere il segreto dargli archivi e dagli atti raccolti dal 1962, a partire dalla pubblicazione delle stesse audizioni inedite di Borsellino a San Macuto, sede dell’Antimafia, tra il 1981 e il 1991.

 

Ora Tartaglia, in occasione del ventisettesimo anniversario della strage di via D’Amelio, ricorda: “Sulla base di una serie di dati processuali possiamo dire che l’accelerazione di via D’Amelio c’è stata. Fino a pochissimo tempo prima della sua esecuzione, via d’Amelio non era nei programmi di dettaglio di Cosa Nostra, dettati da Salvatore Riina. Anche Giovanni Brusca, collaboratore ritenuto più volte credibile, dice come dopo la strage di Capaci, su indicazione di Riina, Cosa nostra fosse al lavoro su altri obiettivi. Voleva uccidere l’onorevole Mannino, poi il brusco stop. Ma non solo. Anche Cancemi, collaboratore storico oggi deceduto, parla di una riunione fatta poco tempo prima di Via d’Amelio in cui Riina preannuncia la necessità di uccidere Borsellino, dimostrando una particolare urgenza“. E ancora: “Quando io e gli altri colleghi palermitani intercettammo Riina nelle ore di socialità, lui stesso diceva che fu ‘una cosa decisa alla giornata‘. In un’altra conversazione, sempre intercettata, dell’agosto 2013, dice: ‘Poi venne quello da me e mi disse ‘subito, subito. Ma chi fu? Bisognerebbe approfondire chi fosse l’interlocutore ignoto“, chiarisce.

 E allora, cosa comportò quell’accelerazione? Scrivono i giudici nelle motivazioni della sentenza di primo grado sul processo Trattativa Stato-mafia: “Ove non si volesse prevenire alla conclusione dell’accusa che Riina abbia deciso di uccidere Borsellino temendo la sua opposizione alla “trattativa”, conclusione che peraltro trova una qualche convergenza nel fatto che secondo quanto riferito dalla moglie, Agnese Piraino Leto, Borsellino, poco prima di morire, le aveva fatto cenno a contatti tra esponenti infedeli delle istituzioni e mafiosi, in ogni caso non c’è dubbio che quell’invito al dialogo pervenuto dai carabinieri attraverso Vito Ciancimino costituisca un sicuro elemento di novità che può certamente avere determinato l’effetto dell’accelerazione dell’omicidio di Borsellino, con la finalità di approfittare di quel segnale di debolezza proveniente dalle istituzioni dello Stato e di lucrare, quindi, nel tempo dopo quell’ulteriore manifestazione di incontenibile violenza concretizzatasi nella strage di via d’Amelio, maggiori vantaggi rispetto a quelli che sul momento avrebbero potuto determinarsi in senso negativo”.
 
La figlia Fiammetta lo ricorda in un'intervita al Giornale di Sicilia.
 
in occasione dell'anniversario della strage di via D'Amelio, Fiammetta Borsellino ricorda il padre e torna a chiede il massimo impegno nella ricerca della verità.
 

"Lo stesso impegno che ha caratterizzato il lavoro di mio padre e di Giovanni Falcone ma di tanti altri prima e dopo di loro". Un impegno che per la figlia del giudice ucciso dalla mafia "credo che debba essere presente ancora oggi per fare luce sulle tante omissioni e le tante irregolarità che hanno caratterizzato le indagini e i processi su via d'Amelio".

Fiammetta Borsellino lo ha detto a Tv2000 nel documentario 'Il dono della luna ' (prodotto da Tv2000Factory) nell'anticipazione in onda domani alle 20.50 durante il programma 'TGtg Estate' in occasione dell'anniversario della strage di via d'Amelio compiuta dalla mafia il 19 luglio 1992.

"È una richiesta - ha aggiunto Fiammetta Borsellino - che non riguarda solo la nostra famiglia, ma credo che è un qualcosa di cui tutto il popolo italiano e tutta la società si debba far carico delegando questo compito non soltanto ai magistrati e alle forze dell'ordine. Credo che ad essere stata offesa non è soltanto la buona fede e l'intelligenza della nostra famiglia ma quella di tutto il popolo italiano".

"Bellezza e amore", ha proseguito la figlia del giudice, "sono le parole dominanti nella nostra vita". "Mio padre - ha infine ricordato Fiammetta Borsellino - anche nei momenti più difficili non smetteva mai di sorridere anche utilizzando come antidoto alla paura l'ironia, che permetteva di sdrammatizzare. Il 19 luglio 1992 noi eravamo ragazzi adolescenti, tra i 19 e i 22 anni. A quell'età è facile lasciarsi un po' andare e se non si trovano delle risorse interiori. Abbiamo scelto la strada della vita, se non avessimo fatto così avremmo totalmente sconfessato quelli che sono stati gli insegnamenti di mio padre".


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