Tasse, equità e redistribuzione delle ricchezze. Le Multinazionali pagano sempre meno sui loro profitti

di redazione 19/03/2018 ECONOMIA E WELFARE
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Secondo una ricerca del Financial Times, le più grandi società al mondo pagano meno tasse oggi rispetto a dieci anni fa. La percentuale delle tasse che pagano sui profitti è diminuita in media del 9 per cento in dieci anni, nonostante i numerosi tentativi fatti dai governi di mezzo mondo per migliorare l’efficienza della tassazione. In questo stesso periodo alcuni governi hanno tagliato le tasse alle imprese, ma il calo delle imposte pagate è spiegato solo per metà dai tagli, scrive il Financial Times, e questo suggerisce che le società si stanno rivelando più abili dei governi a sfuggire alle imposte.

I cittadini vengono tartassati dalle tasse e le multinazionali vedono le proprie tasse calare drasticamente. Il più autorevole giornale economico-finanziario del Regno Unito da qualche anno di proprietà del gruppo giapponese Nikkei, che ha analizzato 25 anni di rendiconti delle 10 più grandi aziende del mondo per capitalizzazione. I risultati mostrano che nel periodo pre-crisi (inizio 2008) il contributo delle imprese alle finanze pubbliche degli Stati è diminuito del 9%, anche per merito di scatole societarie estere, l'utilizzo creativo della finanza e dei paradisi fiscali garantiti da vari Stati.

 Chi ci ha guadagnato di più sono le società di tecnologia e comunicazione, i “giganti del web” come Facebook, Apple e Google, che hanno visto la percentuale sui profitti pagata in tasse calare del 13 cento in dieci anni. Secondo la ricerca, è almeno dal 2000 che queste percentuali sono in calo per quasi tutti i settori. Nel 2000, per esempio, le grandi società pagavano in media il 34 per cento di imposte sui profitti: oggi quel tasso è sceso al 24 per cento, un calo di quasi un terzo. I dati del Financial Times dimostrano che mentre le tasse sul lavoro e sui consumi sono aumentate, le grandi società sono invece riuscite a sfuggire all’aumento e anzi a pagare meno. Secondo una ricerca della società di consulenza KPMG, dal 2008 in media le imposte nominali sulle società sono calate del 5 per cento, mentre in media quelle sulle persone fisiche sono cresciute del 6 per cento.

 La spiegazione più probabile di questa situazione, ha detto al quotidiano Michael Devereux, esperto di fiscalità e professore ad Oxford, «è l’effetto della competizione tra governi, e non vedo come questo si possa fermare». Significa che spesso esiste tra i governi una corsa ad abbassare le tasse sulle imprese, per cercare di attirare investimenti e creare posti di lavoro nel proprio paese. Per esempio i recenti tagli fiscali di Trump porteranno con ogni probabilità a tagli anche in altri paesi, in una sorta di spirale difficile da interrompere.
 

La competizione tra paesi fa sì che alcuni stati abbiamo tutta la convenienza a creare sistemi fiscali pieni di falle e facili da aggirare, in modo da attrarre le società che hanno la possibilità di fare sistematicamente elusione fiscale: per esempio fatturando la pubblicità venduta in un certo paese in un altro con una tassazione più bassa. Oppure imputandole a una filiale con sede in un paese ad alta tassazione guadagni pari ai costi da versare a un’altra filiale situata in un paese a bassa tassazione, azzerandone così i profitti e quindi le imposte dovute nel paese ad alta tassazione.

Secondo il Financial Times è sorprendente come fino a questo momento gli sforzi di organizzazioni come OCSE e G20 per semplificare il sistema di tassazione internazionale abbiano ottenuto scarsi risultati nel limitare questo fenomeno. È un problema che riguarda in particolare le grandi società di Internet e di cui in Italia si è spesso parlato in relazione alla “web tax”, un tentativo di risolvere nel nostro paese un problema che molti pensano si possa affrontare solo a livello internazionale. Soltanto ora i vari paesi membri stanno adottando i 15 punti consigliati dall’OCSEcinque anni fa per evitare l’elusione fiscale, ma con grande lentezza.

Un’altra anomalia riscontrata dal Financial Times nella sua ricerca è la discrepanza tra la quantità di imposte che le grandi società denunciano di dover pagare nei loro stessi documenti e la quantità, spesso inferiore, di denaro che effettivamente arriva nelle casse dei governi. Questa differenza, secondo il Financial Times, è dovuta ad altre scappatoie nei sistemi fiscali, in particolare di quello degli Stati Uniti, che rendono conveniente “parcheggiare” gran parte dei propri profitti nei paradisi fiscali. Secondo il centro di ricerca Institute for Taxation and Economic Policy, le società americane al momento hanno 2.600 miliardi di euro di depositi nei conti dei paradisi fiscali.

Con la sua ultima riforma fiscale, il presidente statunitense Donald Trump ha introdotto una specie di scudo fiscale, che permette di riportare gran parte di questi capitali nel paese pagando un’imposta forfettaria del 15,5 per cento. Il governo dovrebbe riuscire a raccogliere circa 400 miliardi di dollari da questa manovra, mentre le grandi società del web ne risparmieranno fino a 500 rispetto alle imposte previste nei paesi dove hanno generato quei profitti.

E per l'Italia sul fronte Iva dal prossimo 1° gennaio 2019 bisognerà fare i conti con l’aumento sia dell’aliquota ordinaria che di quella agevolata, destinate ad arrivare tra il 2020 e il 2021 la prima al 25% e la seconda al 13%.

 Paradossalmente la tendenza all'aumento delle tasse sui consumatori e sui lavoratori si è amplificata dopo la crisi finanziaria.

 L'Italia resta uno dei Paesi in cui il reddito dei cittadini è tartassato di più, ci ha sempre spiegato l'Ocse un anno fa, perché occupiamo il 5° posto in Europa nella classifica del cuneo fiscale (la differenza tra il costo del lavoro e lo stipendio netto pagato al dipendente) con il 47,8% che è ben al di sopra della media europea ancorata al 36%.


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