Il filo nascosto. Film esteticamente perfetto che corre il rischio dell'incomunicabilità col pubblico.

di redazione 04/03/2018 ARTE E SPETTACOLO
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Il filo nascosto, ultima fatica di Paul Thomas Anderson, è un film formalmente perfetto.

Un’opera fieramente fuori dal tempo, tanto che non si capisce bene in che epoca sia ambientato, che rifiuta tenacemente il cinema moderno e si ricollega direttamente ai grandi melodrammi del passato.

Ancora una volta, come già ne Il petroliere e The master, al centro della vicenda c’è un rapporto di potere.

La storia d’amore tra Reynolds (Daniel Day-Lewis) ed Alma (Vicky Krieps, ingiustamente ignorata dagli Oscar) è un continuo gioco del gatto col topo, una relazione di reciproca sudditanza e dipendenza con punte di estremo sadismo in cui i ruoli sono intercambiabili.

Da una parte c’è Reynolds, stilista affermato e totalmente concentrato sul proprio lavoro.

Intorno a sé l’uomo ha eretto un vero e proprio muro che lo separa dall’esterno, rinchiudendosi nel proprio mondo fatto di rigidi rituali.

La cura maniacale e la perfezione estetico formale de Il filo nascosto sono appunto la forma attraverso la quale Anderson rende visivamente questo mondo soffocante continuamente attraversato da una tensione (anche erotica quando entra in scena Alma) insopportabile e continuamente sul punto di incrinarsi ed esplodere.

Fino a quando nella vita dello stilista non entra Alma, che irrompe in questa realtà con la grazia di un elefante in una cristalleria e con la stessa forza prorompente di un vento improvviso che faccia sbattere violentemente porte e finestre.

Divisa tra l’imbarazzo, l’ammirazione, la soddisfazione che le viene dalle attenzioni che le da Reynolds e l’inadeguatezza, Alma non ha nessuna intenzione di rimanere muta in disparte a fare la bella statuina costretta a subire gli umori dell’altro e da subito reclama il suo spazio trovando (forse) anche una sponda inaspettata nella sorella dell’uomo, Cyril (Lesley Manville).

Sono molte le interpretazioni che possono darsi al rapporto, sicuramente patologico ma non necessariamente malato, che si instaura nella coppia.

Forse però Il filo nascosto può anche essere interpretato come un film “femminista” che narra il percorso di autodeterminazione di una donna disposta, di fatto, a tutto pur di raggiungere il proprio scopo.

È nel momento in cui Reynolds dimostra la propria debolezza ammalandosi che i rapporti di forza cambiano.

Per Alma si apre un improvviso spiraglio. Deciderà allora di approfittare di questa debolezza, scatenandola lei stessa (non diremo come) al fine di avere Reynolds “…sulla schiena. Indifeso, tenero, aperto con solo me per aiutare…”.

Attraverso questa sua sadica decisione il rapporto trova il suo equilibrio, fatto appunto di reciproca dipendenza. Reynolds comprende non solo di aver bisogno di Alma ma che è necessario, per la sua stessa sopravvivenza, che lui si consegni coscientemente alla donna mostrandosi debole ed indifeso ed accettando che lei diventi la sua infermiera.

Rimane tuttavia un dubbio di fondo che aleggia sull’intero lungometraggio.

Ovvero che la corazza in cui si è rifugiato lo stilista sia un po’ la metafora del percorso artistico di Anderson stesso.

Il cinema di quest’ultimo, appare sempre più come totalmente autoreferenziale e chiuso in sé stesso, alla ricerca di una idea di perfezione estetica e formale che rischia però di diventare autistica ed incapace di comunicare con l’esterno, con ciò che sta diventando il cinema stesso ma anche con lo spettatore.

Si corre il rischio insomma che i film di Anderson assomiglino sempre più a splendidi oggetti da adorare ma incapaci di trasmetterci emozioni autentiche e reali; opere esteticamente perfette ma fredde e distanti che nulla hanno da dire a noi contemporanei e che neanche cercano di mettersi in contatto con noi.

O forse è solo una questione di sensibilità personali e ci sarà che troverà un eco di sé stesso in questa storia d’amore che comunque riesce a trovare un suo equilibrio perfetto.

 


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