"Matera col suo volto di Chimera". Intervista allo scrittore Dante Maffia

di Orlando Trinchi 28/08/2017 CULTURA E SOCIETÀ
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Matera ubriaca del mio amore». Un amore assoluto, totalizzante, eccedente, quello che lega Dante Maffia alla città dei Sassi, a stento rattenuto nelle pagine della sua ultima opera in versi, Matera e una donna (Terra d'ulivi edizioni, 2017; fotografie di Elio Scarciglia), presentata in anteprima nazionale martedì scorso a Lungro (Cs). Dopo Elegie materane (Lepisma, 2016), il poeta, romanziere e saggista calabrese riannoda i fili di un discorso mai realmente interrotto, ricostruendo i segni e ricomponendo i lacerti di una geografia intima e vibrante, scandita da vicoli, piazze, aditi, sguardi e anfratti di tempo.

 

Nel suo ultimo libro la città dei Sassi diventa oggetto di declinazioni plurime, incardinata ai suoi mille volti. Maffia, cosa rappresenta per lei Matera?

 È un luogo ideale, un simbolo, un angolino dell'anima che è rimasto intatto fin dall'infanzia, a causa – o per grazia – di un incontro infantile, una bambina, un saluto, un sorriso: dentro di me quel sorriso si è dilatato e quel saluto è diventato il saluto alla vita e al divenire continuo di tutti gli esseri.

 

La sua poesia si sostanzia spesso dell'anima dei luoghi: è per lei un modo di relazionarsi con gli spazi e quindi con il mondo?

 

Sì. Ho bisogno che questi spazi esistano per poi disperdersi subito dopo. Nel momento in cui li conquisto, in cui ci entro e mi abbandono a loro, questi luoghi devono perdere la loro concretezza per divenire una sorta di culla, in cui mi adagio, o per darmi le ali, per volare insieme. Un processo complesso, qualcosa di misterico più che di misterioso. Devono diventare il punto privilegiato da cui guardare il mondo, in modo che la conoscenza mi si offra non come qualcosa di cercato ma come un dono che si schiude sull'infinito.

 

Lo scrittore Marco Onofrio, nel saggio a lei dedicato – Come dentro un sogno (Città del Sole Edizioni, 2014), rileva: “Maffia sa narrare quando fa il poeta ed essere poeta quando narra”. Fra la sua poesia e la sua narrativa esistono rapporti di complementarità?

 

Esistono, anche se si tratta di due tecniche compositive diversissime. Come evidenziava Flaubert, nella narrativa bisogna essere capaci di dire “la signora prese il té alle cinque”: la consuetudine, la quotidianità deve essere riportata in quanto funzionale allo sviluppo del racconto o del romanzo. Tendo tuttavia, quando questo deve avvenire, ad aggiungervi un tocco di poesia; è un'alchimia fragile, poiché si corre il rischio di risultare banali o, di contro, troppo astratti, quindi lontani dalla narrazione.

 Il suo nuovo libro è pervaso da un canto acceso, chiaro, mediterraneo. Non a caso lei cita Jimenez e Alberti...

 Trovo molta consonanza con essi, tanto da essere convinto che il più poeta – non il più grande poeta, attenzione – si chiami Federico Garcia Lorca. Ho visitato spesso l'Andalusia e l'ho trovata molto simile alla nostra Calabria per quanto riguarda i cibi, gli umori, la gente e il paesaggio: il riscontro, anche linguistico, diventa quindi naturale.

 Ne La donna che parlava ai libri (EdiLet, 2009) si coglie invece il riverbero della lezione di Borges...

Quando pubblicai il mio primo libro, Il leone non mangia l'erba (R. Croce, 1974), un certo Lucani – che si firmava Lucano – scrisse, su una rivista che mi pare si chiamasse Alla bottega, una recensione in cui sosteneva che io avessi citato con molta competenza e precisione dei versi di Borges. A quel tempo, tuttavia, non avevo ancora letto Borges; nondimeno, la cosa fu per me motivo di grande esaltazione. Ho avuto in seguito l'onore di conoscere personalmente il grande scrittore argentino e di conversare con lui sia a Roma che in Argentina, essendo diventato molto amico di María Esther Vázquez, la sua biografa e forse – lo diciamo in sordina – il suo primo grande amore, precedente a María Kodama. L'ho sentito molto affine: tale affinità riguarda principalmente la suggestione del sogno, del paradosso o della riproposta di miti della cultura vissuti non alla stregua di citazione dotta ma come parte inestricabile della propria identità.

 In un brano de I racconti del Ciuto (Kaleidon, 2011) lei contrappone all'immortalità degli uomini quella dei cani, garantita dal “non perdere la loro identità che si trasmette e trasmette il senso vero della loro presenza”. L'immortalità può quindi anche venire intesa come preservazione dell'identità?

 Deve essere preservazione dell'identità, altrimenti diventa un sogno che man mano si disperde. Che derivi dall'intimità più profonda o sia latrice di una natura più congetturale non deve perdere la propria forza originaria.

 In Mi faccio musulmano (Lepisma, 2004) il personaggio di Italo afferma che “in fondo tutta la vita degli uomini non è altro che un collezionare”. L'atto del collezionare e del possedere può venire anche interpretato come l'estremo baluardo contro l'impermanenza?

 Da una parte voleva essere una condanna di questa avidità da accumulo, mentre dall'altra recava in sé anche una speranza, in quanto dipende da cosa si accumula. Se la pratica del collezionare viene portata avanti per ragioni che esulano dalla bellezza, tuttavia, si cade in una zona d'ombra dalla quale non nascono fiori.

 Una società può essere definita dai suoi rifiuti. Ne Il poeta e lo spazzino (Mursia, 2008)asserisce che “in Italia è tutto uno spreco”. Ad oggi la situazione le sembra inalterata?

 La situazione è anche peggiore: non si prende provvedimento, il lassismo è diffuso dappertutto – nelle città come nei paesi – e la decadenza sempre più sbadata, ma di proposito: come se volessimo intenzionalmente cadere sempre più in basso, forse animati dall'illusione che una volta raggiunte le profondità infere potrà allora principiare la risalita.

 In Monte Sardo (Rubbettino Editore, 2014), ambientato in un borgo dell'Alto Jonio cosentino, i personaggi oscillano tra idealismo, sogno e rassegnazione. Come trova oggi il suo Sud?

 Da un punto di vista poetico è sempre meraviglioso e fecondo, anche se mi rendo conto che la componente commerciale, l'avidità del voler fare soldi offendendo la natura e gli uomini stessi, è sempre più incisiva. Da poeta ho sempre sperato – o mi sono forse illuso – che la bellezza e l'incanto di questi luoghi avrebbe potuto affinare la nostra anima di calabresi, mentre invece non posso fare a meno di rilevare che una globalizzazione rozza e non controllata può arrecare danni cospicui fino a cancellare – speriamo di no – la nostra identità, che ancora custodisce le preziose vestigia della Magna Grecia.  


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