L'oggetto e lo sguardo. L'arte di Arman

di Orlando Trinchi 22/07/2017 ARTE E SPETTACOLO
img

Metonimie oggettuali come indizi di altri tempi e altri luoghi («Faux Louis XVI», 1961, «Á Lourdes», «Les Ruines de Persépolis» e «E Viva Mexico», 1962). Un ammasso di cacciaviti che simula la guizzante verticalità della fiamma («Dante's Inferno», 1976).

Un agglomerato di pinze che rinviano alla compattezza di un banco di pesci («School of Fish», 1981). Una curva di bici sovrapposte a suggerire movimento («Slow Motion», 1995). Sistematica ed esibita dissezione di pianoforti («Concert for 4 Pianos», 1998), viole e violini («Senza titolo», 2004, «Senza titolo», 2005). La vitalità estetica e significante dell'oggetto costituisce l'essenza della personale Arman 1954-2005, ancora visitabile questo fine settimana a Roma presso Palazzo Cipolla.

A più di quindici anni dall'ultima autobiografica italiana a lui dedicata, la retrospettiva a cura di Germano Celant ripercorre a ritroso, attraverso una selezione di circa settanta opere, cinquant'anni di attività dello scultore e pittore francese naturalizzato americano, considerato fra i più grandi artisti della seconda metà del XX secolo e uno dei protagonisti del gruppo del Nouveau Réalisme.

 Tra pittura e scultura, ready-made e assemblage, la produzione di Arman – al secolo Armand Pierre Fernandez – si incardina alle potenzialità formali e compositive degli oggetti di uso quotidiano, decontestualizzati della loro consueta funzionalità e ricomposti in un ordine estetico ulteriore. «La mia idea – affermava l'artista – è molto semplice: sostengo da sempre che gli oggetti si compongano da soli. Il mio intervento si è limitato a lasciare che si ordinassero da sé». Per sua stessa ammissione convinto collezionista («colleziono perché collezionare è parte della mia creatività»), pose a fondamento della propria concezione artistica le Accumulazioni, di cui sono espressione alcuni dei lavori esposti, fra i quali spiccano «Poubelles des Enfants» e «Poubelle Ménagére» (1960), «Poubelle Organique» (1972) e «Accumulation Sanitaire» (1973). «L'accumularsi – osservava – esiste dal momento che non possiamo identificare visivamente il numero di pezzi assemblati. Solo questa quantità ci permette la creazione di un flusso che scaturisce dalla forma degli oggetti e che crea un meandro».

 Esito estremo della sua ricerca divenne l'accentuazione del carattere disfunzionale degli oggetti, di cui ricorre demolizione o ibridazione – come avviene ad esempio in «Du Producteur au Consommateur» (1997) e «Eine Klein Nacht Musik» (2000) –, operazione che risponde a una sua particolare suggestione: «gli oggetti possiedono un elemento che li rende riconoscibili in ogni loro più piccola particella, ed è sempre emozionante e affascinante verificare fino a che punto si può arrivare senza spingersi troppo in là nella loro distruzione».     


Tags:




Ti potrebbero interessare

Speciali