La notte di Vasco Rossi. 220 mila per celebrare "il comandante"

di redazione 02/07/2017 ARTE E SPETTACOLO
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La storia della musica italiana ha fatto tappa a Modena. Al Modena Park, dove Vasco Rossi ha festeggiato 40 anni di amore con il palco, con il pubblico, con le emozioni. Davanti a una marea umana di oltre 220 mila persone, che ne hanno fatto così il concerto dei record, quello con più spettatori paganti al mondo. Nessuno mai come lui. Modena. Perché tutto è cominciato qui. Con il primo concorso canoro vinto a 10 anni, con il primissimo concerto, che lui non ricorda neanche più. E allora proprio da qui si riparte, per chiudere un cerchio, per fare il punto di una carriera unica, ma anche per andare avanti, perché il Komandante alla sua combriccola lo ha già detto più volte: a fermarsi non ci pensa proprio. Quaranta canzoni per quaranta anni. Una galoppata lunga tre ore e mezzo, maestosa e imponente. Come il palco largo 130 metri. E come i 1500 metri quadri di schermi in movimento che permettono anche ai più lontani di godere di uno spettacolo che più che sugli effetti speciali punta tutto su Vasco, sulle sue canzoni, su una storia da celebrare non solo come successo di un artista, ma anche come rito collettivo.

ll colpo d’occhio è impressionante. Il Modena Park è una colossale arena per 220.000 anime rock, e l’annuncio della partenza arriva con le note altisonanti e kubrickiane di Also sprach Zarathustra, un sole rovente che passa sugli schermi e precede l’arrivo in scena del Blasco, giacca gialla e cappellos curo, su un palco che sembra un transatlantico, larghissimo, alto come un palazzo, esplosivo.

La scossa arriva dalle prime note di Colpa d’Alfredo, quel pezzo scritto tanti anni fa, e che raccontava le dissavventure notturne di un ragazzo, e lo faceva col linguaggio vero, quello parlato, quello della strada, come nessuno aveva fatto prima. Era la rivoluzione di Vasco. Ma gli accordi sono potenti, è il segno rock che illumina la serata.

Il palco è una macchina perfetta, un ideale Luna Park del rock, una girandola di immagini enormi e sparate che amplificano il volto del Komandante, ma esaltano anche i dettagli del lessico rock: chitarre, microfoni, mani che scorrono su tastiere, i legni della batteria, e Vasco questo Luna Park lo sfrutta fino in fondo, incita il pubblico, lo fa ballare, ricorda gli anni Ottanta, ("avete caldo? Avete la febbre, avete la febbre del sabato sera…"). È il momento di ballare e parte con Una splendida giornata, poi cambia bruscamente e ripesca un pezzo "scorrettissimo" come Ieri ho sgozzato mio figlio (“per sbaglio, credevo fosse un coniglio”) che nelle sue scalette è apparso pochissimo, e infine celebra il trionfo dell'edonismo, del piacere puro, col già noto Delusa medley, quattro o cinque canzoni mescolate in una fantasia sfrenata di rock’n’roll. Sul godimento non c’è da fare sconti, mai. Appare sul palco Maurizio Solieri che per tanti anni è stato il chitarrista di Vasco. La gente al buio diventa una massa di piccole luci trasformando il parco in un giardino di luminescenze, mentre Vasco si illanguisce nel sogno di Vivere una favola.

C’è posto anche per la satira, affettuosa per carità. Se il senatore Giovanardi, che oltretutto è di Modena e vive a Modena, si è permesso di ipotizzare catastrofiche calate di droga in occasione del concerto, tanto per rinverdire il Nantas Salvataggio che anni fa metteva in guardia i ragazzi dai “viaggi” di Vasco Rossi, allora si prende l’ilarità del pubblico quando Vasco invita tutti a darsi uno schiaffettino sul posteriore immaginando chissà chi. Passano Non mi va, Cosa vuoi da me, Siamo soli, la più fresca Come nelle favole, si riprende fiato, ma giusto in tempo per cedere alla commozione di Vivere che diventa l’occasione struggente per ringraziare i fan, quando gli schermi mandano quattrocento scelti contributi visivi arrivati dal pubblico, un collage di dediche, passioni, ricordi, storie condivise, le tracce di quell’inesplicabile e fortissimo legame che tiene insieme la folla e il suo idolo. Sono innocente è una delle sintesi perfette di Vasco: “sono innocente, ma non mi fido…”, detto dal più grande dei rocker, ma anche quello che è stato più attaccato, discusso, e una volta, non dimentichiamolo, perfino messo in galera. Polemica? Neanche tanto. C’è subito dopo Rewind, l’inno del Vasco gaudente che ci invita a prenderci la vita, a godere, a non soffrire di bigotti sensi di colpa. "Fammi godere" urla e con lui gode il pubblico, con reggiseni che volano e seni nudi esibiti davanti alle telecamere.

Difficile immaginare che una situazione del genere possa prevedere anche l'idea stessa di intimità. Eppure nei grandi apuntamenti rock succede, di rado ma succede, e anche il megaconcerto di Vasco, l'unico per quest’anno, il raduno della leggenda, la serata dei record, non poteva non concedersi questo privilegio. Arriva dopo Liberi liberi, con un Medley acustico nel quale come per miracolo sembra parlare a uno ad uno dei presenti, in modo più intimo, per l'appunto. L'enorme schermo aiuta, stringe sulla faccia di Vasco, mostra a tutti il suo sguardo, ingrandito, svelato, ognuno può verificare la sincerità dell'eroe, la qualità del suo coraggio, la validità della delega che gli ha concesso e la misura canzone dopo canzone: Il tempo crea eroi, Una canzone per te, Va bene va bene, Senza parole, Stupendo. Se poi arriva il momento per il definitivo collaudo, per dimostrare la tenuta rock di tutto l’allestimento allora c’è un pezzo che sembra fatto apposta.

Si avvicina la mezzanotte e si comincia a percepire l'aria del gran finale. Dopo C'è chi dice no, l'ennesimo invito alla disobbedienza, e Un mondo migliore, quintessenza del candore alla Vasco Rossi, quando si fa domande semplici e si da risposte altrettanto semplici, la macchina si mette in pausa. C'è silenzio per qualche minuto, l'aria è fresca, attraversta da brusii, odori, anzi aromi, si parla con i vicini, poi il palco si accende nuovamente per proporre I soliti, guarda caso dedicata ai presenti, con le telecamere che alle spalle del protagonista mostrano la folla, una delle tappe di quella sequenza che attraversa tutto il concerto come una scaletta nella scaletta, i pezzi dell'identità del popolo di Vasco, a partire dalla combriccola del Blasco Rossi, che diventa "noi siamo i soliti", le canzoni che invece di "io" o "tu" usano il "noi", un'idea che, dopo Sally e Un senso, esplode definitivamente nell'apoteosi di Siamo solo noi, che usa magistralmente uno dei riff più classici del rock ma raccoglie da trent'anni e più quella sensazione di estraneità che si prova quando non ci si riconosce in istituzioni e certezze, quando sentiamo di essere quelli non adatti, non conformi, non inseriti, non vincenti. Idea ribattutta nella pienezza di Vita spericolata, che funziona sempre, che tutti vogliono cantare, che tutti sanno a memoria e aspettano alla fine del concerto. In coda sulle ultime note del brano l'omaggio straziante all'amico chitarrista Massimo Riva. Il vero finale è e deve essere sempre Albachiara, da quando Vasco una volta che pensava di non cantarla si rese conto che la gente non aveva alcuna intenzione di andarsene. Da allora la canta sempre, alla fine, ma questa volta a Modena suona come la carezza definitiva, un saluto struggente all'orizzonte che nella notte è diventato lunghissimo, senza fine.


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