Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. 22 anni di misteri e false verità.

di M.L 22/10/2016 CULTURA E SOCIETÀ
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L’Italia era alle prese con lo scontro frontale fra la nuova destra berlusconiana e ciò che rimaneva della sinistra post comunista guidata da Achille Occhetto. Domenica 27 marzo e lunedì 28 si andò a votare e Silvio Berlusconi divenne per la prima volta presidente del Consiglio. I telegiornali e i nascenti salotti televisivi erano occupati da questo scontro che avrebbe poi segnato e indirizzato le sorti del Paese per un paio di decenni; ma nei telegiornali, soprattutto in quello di Rai 3, si parlava diffusamente anche di un'altra, tragica, notizia. Ilaria Alpi, 28 anni, giovane e promettente inviata della Rai e il cameraman operatore Miran Hrovatin, 45 anni, erano morti, uccisi in un conflitto a fuoco a Mogadiscio, in Somalia.

L’efferatezza della morte lascia sgomenti i colleghi dei due giornalisti e si intuisce subito che qualcosa non quadra. Alpi e Hrovatin non si sono trovati causalmente nel mezzo di un conflitto a fuoco fra le bande che infestano il paese del Corno d’Africa in quegli anni dopo l’intervento americano. Si intuisce che erano proprio loro due gli obiettivi dei killer. Di casuale in quella tragica vicenda non c’è nulla e già nelle settimane successive c’è chi comincia a correlare l’agguato con l’attività giornalistica e di inchiesta della Alpi e di Hrovatin che stavano seguendo la missione Restore hope delle Nazioni Unite a guida statunitense.

Sono trascorsi 22 anni da quel barbaro omicidio e ancora i misteri su mandanti, killer e, soprattutto, sul movente, non sono stati svelati, anzi sembra che la trama in questi anni si sia infittita, ingarbugliata da indagini superficiali se non deviate da interessi forti che non hanno voluto far alzare quel velo di mistero.

Vediamo le tappe principali:

 20 marzo 1994. Ilaria Alpi e Miran Hrovatin cadono sotto i colpi di un commando di sette persone che si affianca alla loro auto, esplodendo numerosi colpi di kalashnikov,

22 marzo 1994. La procura di Roma avvia una inchiesta. Il fascicolo viene affidato al sostituto procuratore Giuseppe Pititto il quale scopre che sul corpo della giornalista è stato fatto solo un esame esterno. Nessuna autopsia, quindi.

9 aprile 1996. Il pm iscrive sul registro degli indagati, quale mandante del delitto, il sultano di Bosaso, Abdullahi Mussa Yussuf, l'ultima persona che la Alpi aveva intervistato prima di morire, per fare luce su un presunto trffico di armi effettuato dai pescherecci di una società italo-somala. La posizione del sultano, che aveva sempre respinto le accuse, sarà poi archiviata.

8 maggio 1996. La salma di Ilaria Alpi viene riesumata per una nuova perizia. Ma le conclusioni degli esperti sono contrddittorie: non si capisce se la cronista sia stata uccisa con un colpo sparato a bruciapelo, a mò di esecuzione, o a distanza.

12 gennaio 1998. Per concorso in duplice omicidio volontario, viene arrestato il cittadino somalo Omar Hashi Hassan, indicato quale componente del commando. La richiesta d'arresto è firmata dal pm Franco Ionta al quale il procuratore capo Salvatore Vecchione decide di affidare l'inchiesta, revocando la delega a Pititto e facendo ripartire da zero tutti gli accertamenti.

20 luglio 1999. Hassan viene assolto dalla corte d'assise di Roma "per non aver commesso il fatto". Il pm aveva chiesto la condanna all'ergastolo.

24 novembre 2000. La Corte d'Assise d'Appello ribalta la sentenza di primo grado e condanna Hassan al carcere a vita. Per il somalo scattano in aula le manette. Fortemente critici i genitori di Ilaria: si tratta di "una sentenza nera, non ci accontentiamo di questa verità. Vogliamo i mandanti veri".

10 ottobre 2001. La Corte di Cassazione conferma la condanna per omicidio volontario ma, annullando la sentenza di secondo grado limitatamente all'aggravante della premeditazione e alla mancata concessione delle attenuanti generiche, rinvia il procedimento per nuovo esame ad altra sezione della corte d'assise d'appello.

26 giugno 2002. Hassan viene condannato a 26 anni di reclusione.

31 luglio 2003. Nasce la Commissione parlamentare d'inchiesa Alpi-Hrovatin. Presidente sarà l'avvocato Carlo Taormina.

23 febbraio 2006. La Commissione si spacca e termina i suoi lavori con tre relazioni, una di maggioranza e due di minoranza. Ufficialmente la Commissione si schiera per l'ipotesi di un tentativo di rapina o di rapimento "conclusosi accidentalmente con la morte delle vittime". La versione alternativa invece ipotizza che la Alpi abbia scoperto un traffico di armi e di rifiuti tossici illegali nel quale erano coinvolti anche l'esercito e altre istituzioni italiane.

16 dicembre 2013. La presidenza della Camera, su iniziativa della presidente Boldrini, avvia la desecretazione degli atti delle Commissioni d'inchiesta sui rifiuti e sul caso Alpi. Verranno desecretati nel maggio dell'anno successivo.

19 ottobre 2016. La Corte d'Appello di Perugia assolve Hassan dall'accusa di avere partecipato all'omicidio di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin. Omar Hassan ha scontato in carcere 17 dei 26 anni che gli erano stati inflitti.

 Una serie di indagini, perizie, inchieste mescolatesi negli anni ad una notevole mole di piste e ipotesi vagliate, senza però si riuscisse a raggiungere prove inoppugnabili su come andarono i fatti quel 20 marzo del 1994.

Appare però ormai indubitabile che Ilaria nel suo compiere in pieno il dovere di giornalista aveva scoperto qualcosa di grosso: un traffico d’armi e di sostanze tossiche, relazioni inconfessabili, affari sul filo della missione dell’Onu.

La Alpi aveva raccolto informazioni e non solo a proposito di alcune navi, quali la Lynx. E Radhost, Jolly Rosso, Rigel. Oppure la Cunsky. Sono i nomi delle “navi a perdere”, le “navi dei veleni”, che dagli scali europei portavano rifiuti tossici e radioattivi sulle coste dell’Africa. Nel marzo del 1994, pochi giorni prima di essere uccisi forse Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, su una di quelle navi, ormeggiata nel porto somalo di Bosaso, ci erano anche saliti.  

In ogni caso erano andati fin lì, a Bosaso, proprio per scoprire lo sporco affare del traffico internazionale di rifiuti velenosi e di armi. Quello che da società e armatori con domicilio in Svizzera, Lichtenstein, Inghilterra seguiva le rotte che conducevano in Somalia. Con appoggio e complicità di mafia, camorra, ndrangheta e altre organizzazioni. E all'ombra della cooperazione internazionale. Un abbraccio perverso tra business in giacca e cravatta, economia criminale e poteri statali. I taccuini di appunti riempiti da Ilaria Alpi e le immagini girate da Hrovatin (che sono spariti) raccontavano quello che non si è mai saputo.

Secondo Mariangela Gritta Grainer, che sul caso Alpi-Hrovatin indaga da vent’anni ha dichiarato che “Nel traffico dei rifiuti tossici erano coinvolti anche pescherecci donati dalla cooperazione alla Somalia, ai tempi di Siad Barre. Partivano per portare pesce in Italia, poi tornavano a Mogadiscio seguendo lunghe rotte che andavano dall'Irlanda all'Iran, con tappe a Beirut. E scaricavano armi e fusti velenosi. È probabile che una parte di scorie tossiche siano interrate lungo la strada tra Garoe e Bosaso. Ma naturalmente nessuno è mai andato a cercarle. Si sa invece che quando ci fu lo tsunami, che toccò anche le coste del Corno d'Africa, sulle spiagge furono trascinati bidoni di rifiuti velenosi e radioattivi. Quelli che erano stati scaricati in mare”.

Ilaria Alpi aveva dunque capito come funzionava quel traffico colossale e illecito alle spalle delle missioni delle Nazioni Unite. I buchi neri che hanno costellato la vicenda per 22 anni sono tantissimi. Dall'autopsia non effettuata (il corpo di Ilaria Alpi fu riesumato solo nel 96), alle tre perizie balistiche per accertare che la giornalista fu ammazzata con un colpo alla testa sparato a bruciapelo; al vero ruolo di Hashi Omar Hassan, venuto in Italia nel 97 per testimoniare sulle violenze dei militari italiani sulla popolazione somala, e finito in cella con l'accusa di aver fatto parte del commando.

Come giornalisti abbiamo il dovere di non smettere di cercare la verità, di cercare di capire. Lo dobbiamo alla verità dei fatti. Lo dobbiamo anche alla famiglia di Ilaria: la mamma Luciana e al papà Giorgio che se ne è andato senza aver avuto giustizia per la figlia.

Qualche giorno fa su L’Unità, la mamma di Ilaria, Luciana ha detto dopo l’assoluzione di Hassan, di essere stanca, di non sapere se avrà ancora la forza per continuare a cercare la verità.

Confidando nel lavoro che continua della magistratura, i colleghi di Ilaria e Horvatin, la Federazione Nazionale della Stampa hanno confortato la signora Luciana, perché si continuerà a cercarla quella verità non solo nel rispetto della memoria de due giornalisti ma per la dignità e il rispetto che un Paese deve avere di se stesso.

 



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