Bikini e Burkini. Il lungo cammino delle donne tra stereotipi sociali e credi religiosi

di Rosanna Pilolli 08/09/2016 CULTURA E SOCIETÀ
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Sono ormai alle nostre spalle i mesi estivi, quelli del “tutti al mare” con la polemica sul “burkini” che le donne di religione musulmana hanno deciso di indossare per potersi tuffare nelle acque del mare o in quelle di una piscina. Questo indumento molto coprente è stato com’è noto oggetto del decreto governativo francese di proibizione e della successiva pronuncia di rigetto del provvedimento da parte del Consiglio  di Stato. Vince dunque ancora una volta il principio di “libertè”

Anche da noi il costume da bagno femminile non ha avuto sempre una vita facile subendo inizialmente l’identificazione con il pudore femminile che la società patriarcale intendeva conservare.

 Bisogna ricorrere al passato e  ricordare che in Sicilia ( Piazza Armerina), un mosaico di epoca romana ha mostrato dodici fanciulle  in succinto due pezzi nell’atto di eseguire movimenti sportivi. Molto presto comunque il corpo delle donne si è abbondantemente coperto. Nell’abbigliamento quotidiano e ai bagni di  mare inizialmente poco frequentati. La prima bagnante in assoluto è stata nel 1825 Maria Carolina moglie del Re di Napoli che esordì indossando un abito di lana e scarpette di vernice. Fino al 1870 le signore borghesi si recavano  in spiaggia indossando abiti chiari e leggeri e  munendosi  di parasole per evitare l’abbronzatura considerata  caratteristica delle classi popolari

 Cominciava però nel Novecento la crescita tumultuosa  della  riduzione dell’abbigliamento marino. Si passò rapidamente dalle gonnelle rigonfie e sovrapposte al gonnellino a campana sopra  pantaloni aderenti o alla zuava con scarpini a lunghe stringhe intrecciate  lungo la gamba. Non si poteva osare di più.  Nel 1906 una nuotatrice australiana Annette Kellerman si presentò ad una gara di nuoto negli Stati Uniti indossando un costume intero che le lasciava scoperte le cosce. Venne arrestata, multata e rispedita in patria con il foglio di via obbligatorio.

Intanto i tempi maturavano. Negli anni ’20 del secolo le donne guadagnarono qualche centimetro in più di “scoperto” marino grazie anche ai film di Hollywood che le avevano sottratte alla schiavitù della eccessiva pudicizia. Così in brevissimo tempo le nostre progenitrici sono passate  dai “mutandoni”,  dai costumi interi di maglia colorata degli anni trenta,  al succinto bikini

  In Italia e nel mondo infatti abbiamo appena ricordato con entusiasmo i settanta anni di questo due pezzi ridotto all’osso. Un indumento rivoluzionario che il francese Louis Réard presentò il 5 luglio 1946 facendolo indossare alla modella e spogliarellista Micheline Bernardini per una sfilata di moda a Parigi. La splendida ragazza ricevette cinquantamila lettere di ammiratori. L’origine del nome “bikini” non fu dei più felici. Derivava dall’atollo delle isole Marshall dallo stesso nome dove gli Stati Uniti eseguivano esperimenti atomici. In effetti il nuovo costume fu una bomba ma a effetto ritardato. La strada sembrava aperta ovunque alla nuova libertà delle donne di prendere la “tintarella” in parti del corpo più esposte al morso del solleone. Non fu così. Intanto sulle spiagge italiane il “bikini” in forma piuttosto castigata e arricchito da volants apparve soltanto alla  fine degli anni cinquanta. La polizia inoltre multava le donne troppo scoperte. L’avanzata definitiva nella forma attuale fu sanzionata nel 1956 da Brigitte Bardot nel film “E Dio creò la donna” .Ma il bikini più sensazionale fu quello bianco di Ursula Andress che lo indossò in un film della serie di James Bond: “007- Licenza di uccidere”del 1962.

 Una storia di emancipazione che oggi i scontra con un medesimo percorso di libertà che dovranno affrontare le donne musulmane sempre nel rispetto delle identità e delle cultura di tutti.



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