Suburra. L'altra faccia, oscura e corrotta, della grande bellezza

di Emiliano Baglio 06/11/2015 ARTE E SPETTACOLO
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Una delle cose più divertenti che possiate fare dopo aver visto Suburra è andare su internet a leggervi qualche recensione.

Per carità, ognuno ha i propri gusti, ma il punto è che sul nuovo film di Sollima la critica si è spaccata in due come da sempre accade quando in Italia si prova a fare cinema di genere.

Da una parte sembrano esserci le lodi dei siti e dei blog di cinema, dall’altra le analisi dei recensori di quotidiani e riviste su carta. I primi spesso esaltano anche troppo il film, i secondi sostanzialmente lo stroncano cercandovi all’interno significati che molto probabilmente l’opera non ha e soprattutto non vuole avere.

Saremo pure maliziosi ma alle volte l’invidia è una brutta bestia.

In molti cercano in Suburra grandi metafore politiche, sociali o sociologiche; come se non fosse perdonabile né pensabile che Sollima abbia solo cercato di fare un buon film di genere che porti a casa dei soldi, sia visto da un pubblico eterogeneo e soprattutto non rinunci ad una forma e ad una estetica forte e solida; ecco questo al regista romano non viene perdonato; in Italia evidentemente non si può girare un noir, un poliziottesco, un horror o un fantasy e farlo bene; no bisogna buttarsi sul presunto cinema d’autore o su scialbe commedie para televisive.

Sollima invece, imperterrito, continua con la sua idea di cinema con un secondo lungometraggio riuscito solo parzialmente e che, probabilmente, sconta dei difetti che derivano dal percorso professionale del suo autore.

Innanzitutto, secondo il nostro modesto parere, Suburra non possiede la forza che aveva Acab che filava dritto come un treno e veloce come un proiettile.

Stavolta invece il nostro autore decide di prendersi i suoi tempi e soprattutto i suoi spazi nel tentativo di realizzare un grandioso affresco che abbia un respiro epico, con risultati altalenanti.

Probabilmente il suo secondo lungometraggio sconta le passate esperienze televisive del suo regista il quale, abituato ai tempi delle serie tv (Romanzo criminale e Gomorra) sembra quasi non riesca a gestire bene la durata di un singolo film sebbene di 130 minuti.

Suburra insomma spesso ha un ritmo lento e si perde in mille rivoli laterali vista la gran massa di personaggi che lo abitano. D’altra parte nasce come prodotto ibrido visto che Netflix, che ha coprodotto il film, lo ha fatto mettendo in cantiere di trarne anche una serie.

Lecito dunque chiedersi se quello che stiamo vivendo sia un lungometraggio a sé stante o l’episodio introduttivo della serie che verrà.

Comunque sia, paradossalmente, i personaggi del film anelano naturalmente ad essere raccontati meglio e di più.

Questa incompiutezza ed il ritmo che a volte latita ci sembrano essere gli unici difetti di un film che, per il resto, è solo da ammirare.

Innanzitutto per la Roma che Sollima ha costruito, una sorta di Sin city abitata solo da criminali, dove piove praticamente sempre, dove lo Stato di fatto non esiste se non nelle forme di un potere corrotto, dove il giorno praticamente non c’è (quasi mai), tutto si svolge di notte e quando arriva la luce tutt’al più può illuminare la spiaggia di Ostia battuta dal vento.

Suburra è di fatto l’altra faccia de La grande bellezza, da una parte la città eterna dei monumenti e delle bellezze, dall’altra quella sotterranea dei traffichini e dei Casamonica, dei mafiosi e dei piccoli criminali, della Banda della Magliana, la "terra di mezzo" e così via ad inseguire una cronaca che il libro di Carlo Bonini e Giancarlo de Cataldo da cui è tratto il film avevano anticipato e che, proprio durante le riprese esploderà in Mafia capitale sino ad un finale beffardo in cui si accusano gli attori del film per una foto che li ritrae, inconsapevolmente è ovvio, con un boss della mala di Ostia.

Accanto a questa Roma che chi ci vive conosce anche troppo bene c’è il lavoro sugli attori, semplicemente immenso.

Claudio Amendola nel ruolo del Samurai che finalmente torna ad essere quello che conoscevamo un tempo, Elio Germano magro sino a scomparire nella parte del mellifluo Sebastiano. Ed ancora il Manfredo Anacleti alias Casamonica splendidamente interpretato da Adamo Dionisi, la bellezza di Greta Sacrano nella parte della dolente tossica Viola, il corpo statuario di Pierfrancesco Favino (Onorevole Filippo Malgradi) ripreso come fosse un Dio greco prima di portarsi a letto due escort di cui una minorenne in una notte di sesso e coca. Sino alla vera sorpresa, quel Numero 8 (Alessandro Borghi) che meriterebbe un film a parte che ce ne raccontasse tutta la storia.

Sollima prende i suoi attori, da nuova vita a molti di essi e poi semplicemente gestisce lo spazio e la macchina da presa con rara maestria.

Perché alla fine Suburra è un film in cui gli ambienti determinano i caratteri e le azioni dei personaggi che agiscono ed interagiscono a secondo dei luoghi in cui si muovono. Come nei migliori film d’azione è ciò che accade e dove accade a definire la psicologia dei personaggi e a dare tono e sostanza alla storia.

Il fasto dei palazzi dove si muove Malgradi ed ancora una volta citiamo il momento in cui Favino è incorniciato nudo sul letto in attesa delle due escort. Il litorale invernale di Ostia, i locali notturni e gli squallidi bar nei quali il Samurai incontra le sue vittime. Locali a luci rosse, cortili inondati dalla pioggia, anonimi centri commerciali, case pacchiane per cravattari arricchiti, la suntuosa villa dove Sebastinao organizza le sue feste che improvvisamente si illumina al ritmo della musica. Laghetti artificiali dove vengono ritrovati corpi di minorenni ammazzate.

Suburra è una festa per gli occhi, l’esempio lampante di come si possa fare cinema partendo dalla scelta degli ambienti, senza sprecare tempo in discorsi o pindarici voli d’autore.

Basta un corpo messo nel suo spazio e la capacità di un regista di farlo parlare con l’ambiente e lasciare che a sua volta l’ambiente ci dica tutto quello che c’è da sapere su chi lo abita in quel momento.

Vogliamo solo citare un’ultima sequenza, che ben spiega la maestria registica di Sollima.

È quella in cui Sebastiano e suo padre si allontanano. La cinepresa segue Elio Germano lasciando però sullo sfondo il padre che si allontana. L’uso della profondità di campo ci fa immediatamente capire che se il padre di Sebastiano è ancora lì nell’inquadratura è perché qualcosa sta per accadergli. Ecco, viene da chiedersi: quanti altri registi italiani sarebbero in grado di costruire un momento così semplice e perfetto di cinema? Ciò ammesso che sappiano cos’è la profondità di campo e come si usa.

 


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