Alice nella città 21 edizione. Concorso Stéphane Vuillet e Stéphane Xhroüet: Katika bluu
La realtà dei bambini soldato in Congo in un film a metà strada tra documentario e finzione.
Katika bluu nasce direttamente dall’esperienza compiuta da Stéphane Xhroüet chiamato in Congo dall’Unicef per aprire un laboratorio di cinema all’interno di un CTO (Centres de Transit et d’Orientation).
Si tratta di luoghi protetti nei quali l’organizzazione internazionale prova a ridare nuova vita ai bambini soldato.
Ben presto Xhroüet decide di chiamare il collega Vuillet per realizzare qualcosa che documentasse quella realtà così poco conosciuta in Occidente.
Katika bluu, strada facendo, si è però trasformato in un progetto ibrido che abbatte i confini tra finzione e verità.
Ad interpretare i protagonisti del film, ad esempio, sono proprio alcuni degli ospiti del centro e gran parte della storia nasce dai loro racconti, sebbene il tutto sia stato poi trasformato in un racconto di finzione.
Katika bluu si sviluppa seguendo due coordinate diverse.
Da una parte abbiamo la storia di Bravò, un bambino appena liberato dalla foresta dove era stato rapito dai ribelli per farne un soldato.
Il film segue passo passo la sua trasformazione e presa di coscienza.
Bravò infatti, quando arriva nel centro, è così spavaldo da vantarsi addirittura degli stupri che ha commesso.
Il confronto con le donne che lavorano nel CTO, l’amore per una ragazza conosciuta durante un’esibizione di capoeira ed il rapporto con gli altri ospiti cambiano il ragazzo e gli restituiscono una normalità perduta.
La guerra diventa solo un gioco tra amici e Bravò alla fine è pronto ad assumersi le proprie responsabilità e ad occuparsi dei futuri ospiti del centro.
Per lui tuttavia il ritorno a casa è impossibile poiché nella memoria degli abitanti del suo villaggio sono troppo vivi i ricordi dei crimini commessi dal ragazzo.
Vuillet e Xhroüet ci offrono dunque un documento su una delle troppe guerre dimenticate e sui traumi, alle volte irreparabili, che colpiscono i bambini, sottratti alla normalità e spesso privati di un futuro.
Contemporaneamente gettano uno sguardo sulla vita quotidiana di questi non luoghi, che in teoria dovrebbero essere di passaggio e che spesso invece diventano l’unico rifugio per i ragazzi anche perché, come ci spiega la didascalia finale, fuori di essi non esiste nulla che permetta il reale reinserimento nella vita di tutti i giorni.
Così, forse involontariamente, nel ricordarci una guerra dimenticata, il film finisce anche per il farci fare un’inevitabile parallelismo con i nostri centri per l’immigrazione, anch’essi non luoghi circondati da muri e filo spinato, nei quali le giornate si susseguono vuote in un tempo sospeso tra un passato di violenze ed un futuro che spesso nemmeno esiste.
EMILIANO BAGLIO