23 maggio 1992. Capaci. L'attacco di Cosa Nostra. Uccisi Il giudice Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti Dicillo, Montinaro, Schifani. Cosa è oggi la Mafia? Per gli italiani Falcone è un eroe e un esempio di dovere civile

di redazione 21/05/2022 CULTURA E SOCIETÀ
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Sono passati 30 anni da quando Cosa nostra dichiarò guerra allo Stato attraverso gli attentati a Giovanni Falcone e a Paolo Borsellino, i due magistrati che hanno rivoluzionato la lotta alla mafia. Furono tra i primi a capire che per colpire i clan bisognava aggredire innanzitutto i loro capitali. Grazie alle loro innovative indagini patrimoniali, si passò dall'immagine della vecchia mafia con coppola e lupara alla visione moderna di Cosa nostra come una Spa, un impero di aziende e patrimoni immobiliari, capace di stringere accordi con imprenditori, professionisti e le più alte cariche politiche.

È con i due magistrati siciliani che assume un ruolo centrale nelle indagini la figura del pentito: le rivelazioni fatte dall'ex capomafia Tommaso Buscetta a Falcone costituiscono la base del più importante procedimento giudiziario contro Cosa nostra: il Maxiprocesso, che ricostruisce per la prima volta l'intero organigramma della mafia siciliana e porta all'ergastolo dei principali boss della mafia, a partire da colui che la sentenza riconosce come il Capo dei Capi, Totò Riina.

Il 23 maggio è il 30° anniversario della strage di Capaci che colpì Giovanni Falcone (con la moglie Francesca Morvillo e con i ragazzi della scorta, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani). Neanche due mesi dopo, il 19 luglio, in via d’Amelio la mafia sterminava Paolo Borsellino e quanti erano con lui (Agostino Catalano, Vincenzo Limuli, Walter Cosina, Claudio Traina ed Emanuela Loi). È dopo le due stragi che ho chiesto al CSM di essere trasferito da Torino a Palermo a capo della Procura.

Sono 500 chili di esplosivo a scatenare la sfida di Cosa Nostra allo Stato. E' pomeriggio inoltrato, sono le 17,58 del 23 maggio del 1992, quando lungo l'autostrada che collega Palermo a Trapani, le auto del magistrato antimafia Giovanni Falcone e della sua scorta superano il chilometro cinque. Un'enorme esplosione le ferma poco dopo, in prossimità di Capaci, provocando la morte di Falcone, della moglie Francesca Morvillo e degli agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.
Una strage che colpisce al cuore il paese dando vita però a misure mai viste nella lotta alla mafia e a una nuova coscienza collettiva.

Falcone e Borsellino erano stati la punta di diamante del pool antimafia di Palermo, creato da Rocco Chinnici - vittima di un’autobomba mafiosa - e perfezionato da Nino Caponnetto. Vado spesso (e sempre volentieri) nelle scuole a parlare ai ragazzi di legalità, mafia e antimafia. Inevitabilmente il discorso cade su Falcone e sul “maxi processo”, il capolavoro investigativo-giudiziario del pool che ha posto fine al mito dell’invulnerabilità di Cosa nostra,  rendendo al nostro Paese - ed era la prima volta in assoluto - un incommensurabile servizio: dimostrare coi fatti che la mafia può essere sconfitta. 

Per un terzo degli italiani lo Stato ha reagito alla stagione delle stragi mafiose di Capaci e Via D'Amelio cercando un "compromesso politico" con Cosa Nostra.

Falcone e Borsellino, insieme, avevano istruito il primo maxiprocesso alla mafia, gestito i primi pentiti, incassato il primo risultato storico. Fino ad allora neppure si sapeva il nome dell'associazione criminale, Cosa Nostra. Per scrivere le ottomila pagine del processo e sfuggire agli attentati che in quegli anni insanguinavano Palermo, i due magistrati erano stati costretti a riparare per sei mesi, e con le rispettive famiglie, nella foresteria del carcere dell'Asinara, su un'isola, lontani dal mondo. Lo Stato li ringrazierà chiedendo loro il rimborso delle spese per il soggiorno. Anche la mafia annoterà sul libro nero i loro nomi per un'altra resa dei conti, letale e definitiva. La Cassazione chiuderà la partita il 30 gennaio 1992 con una montagna di ergastoli e la conferma dell'impianto accusatorio. La risposta della criminalità organizzata non si farà attendere. Neppure quella dello Stato. Restano zone d'ombra, molti passaggi ancora da chiarire, forse altre responsabilità da accertare. D'accordo: misteri, l'Italia ne è piena. Ma esecutori e mandanti sono stati presi. Processati. Condannati.

Cos'è cambiato, in questi trent'anni? E come siamo cambiati noi? La lotta alla criminalità organizzata ha mutato indirizzo, strategie, schemi d'attacco. In quegli anni, e grazie all'esperienza del pool di magistrati al lavoro a Palermo, ha preso corpo la Procura nazionale antimafia con le sue articolazioni territoriali delle Dda, per coordinare le inchieste e condividere conoscenze e competenze. È nata la Direzione investigativa antimafia (Dia). Seguendo le intuizioni di Falcone, le indagini hanno affinato la capacità di ricostruire collegamenti e alleanze seguendo i flussi di denaro. L'aggressione ai patrimoni illeciti è diventata un'arma straordinaria: tesori sequestrati e confiscati, il massimo danno per chi sul prestigio fonda il proprio potere. Il re nudo non è più re. E poi il 41-bis, voluto proprio da Falcone ed esteso ai mafiosi in carcere dopo la strage di Capaci. Altro colpo durissimo. Cosa Nostra reagirà ancora una volta con estrema violenza, ma senza ottenere sconti, anzi. Attentati riusciti, a Firenze (via dei Georgofili, cinque morti) e Milano (via Palestro, altre cinque vittime), o falliti, come a Roma per un soffio. Tra questi, l'autobomba piazzata fuori dallo Stadio Olimpico e pronta a esplodere dopo una partita di calcio.

Ma noi? Ecco, noi come siamo cambiati? Qual è il nostro atteggiamento verso la mafia e il malaffare? Da quale parte siamo schierati, sempre e comunque? Quale partita personale giochiamo quando stringiamo mani e sottoscriviamo accordi? Che percezione abbiamo della pervasività del fenomeno malavitoso, ora che l'inabissamento tramontata l'emergenza stragista è diventato modalità prevalente? Ora che i clan, più che intimorire, si fanno prossimi e vicini, come solo il male sa fare quando non intimidisce ma circuisce, per conseguire consenso e rastrellare favori, catalizzando richieste di vario tipo e in diverse forme? Ecco: fermiamoci un attimo. Riflettiamo. Diceva Falcone, in una delle sue frasi più note e ripetute, che la mafia non è invincibile: «È un fatto umano, e come tutti i fatti umani ha un principio e avrà anche una fine»

IL RICORDO

A trent’anni dalla morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Rainews24 ha dedicato una puntata ai depistaggi che hanno segnato gli anni più bui della nostra storia.

Spotlight, il programma d’inchiesta di Rainews24, torna sui luoghi degli attentati con le testimonianze degli agenti sopravvissuti Angelo Corbo e Antonio Vullo. Nella puntata dal titolo “Trent’anni di depistaggi sulle stragi” di Raffaella Cosentino, curata da Valerio Cataldi, in onda venerdì 20 maggio alle 20.30, oltre al dramma dei superstiti emergono dettagli inquietanti e interrogativi ai quali le indagini e i tanti processi ancora non hanno dato risposta.

“Si vuole evitare che vengano alla luce verità talmente destabilizzanti che possono chiamare in causa pezzi dello Stato”, dice a Spotlight Roberto Scarpinato, ex procuratore generale di Palermo, che fino al momento di andare in pensione all’inizio del 2022 ha concluso un’inchiesta sulle presenze esterne a Cosa Nostra negli attentati stragisti.

Il piano stragista si collega anche agli omicidi dell’agente Nino Agostino e del collaboratore dei servizi segreti Emanuele Piazza che seguono lo stesso fil rouge dei rapporti tra la mafia e pezzi deviati dei servizi segreti. Segreti ancora custoditi dall’omertà dei tanti boss irriducibili condannati all’ergastolo che non hanno mai aperto la bocca e collaborato con la giustizia. 

Ma che Falcone dovesse essere ucciso, Cosa Nostra lo aveva deciso da tempo. il 21 giugno 1989, all’Addaura, nella villa sulla costa siciliana che il magistrato aveva affittato per l’estate, venne trovata una scatola di metallo con 58 candelotti di esplosivo. Quell’attentato fallì, presumibilmente per un malfunzionamento del detonatore. Una vicenda ancora avvolta dal mistero di cui racconta l’inviato Pino Finocchiaro nella puntata speciale di 24mm “Addaura, il fallito attentato contro il giudice Falcone, tre anni prima di Capaci”.

 IL sondaggio


    Per il 22% la reazione delle istituzioni è stata "militare" e "giudiziaria" e si è manifestata con un potenziamento del controllo del territorio, con le indagini e con gli arresti.

Per il 21%, invece, lo Stato ha reagito investendo sulla cultura della legalità. Solo 1 su 10 ritiene che non ci sia stata alcuna reazione. Quale che sia stata, la condotta delle istituzioni ha prodotto, secondo gli italiani, solo risultati parziali: per il 47% è stata efficace a fermare la violenza stragista dell'epoca, per il 33% a ridurre la gravità del fenomeno mafioso e solo per il 27% è servita a sconfiggere definitivamente la mafia. E' il quadro che emerge da un sondaggio che Ipsos ha donato alla Fondazione Falcone alla vigilia del 30esimo anniversario della strage di Capaci.
    La rilevazione è stata effettuata tra il 30 marzo e il 4 aprile.
   

L'eredità del lavoro svolto da Giovanni Falcone è considerata importante: pressochè unanime la conoscenza del maxiprocesso alla mafia, primo atto d'accusa a Cosa nostra istruito da Falcone (anche se per il 64% resta una conoscenza sommaria).
    Secondo gli intervistati, ancora, Falcone ha inferto un duro colpo a Cosa Nostra, ma molto resta ancora da fare (per il 55% degli italiani). Solo 1 su 10 ritiene che il suo lavoro sia stato inutile. Il ricordo del 23 maggio 1992, giorno dell'attentato di Capaci, è netto anche tra i più giovani, informati dai genitori e dalla scuola su quanto accadde.
    Alla domanda su quale sia stato lo stato d'animo dopo la notizia della strage: per il 38% della popolazione la risposta è stata di rabbia, incredulità per il 26 %, tristezza per il 21. Un italiano 1 su 10 ha provato paura. 

 

 


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