25 novembre. Giornata contro la violenza sulle donne. Una piaga cresciuta tra mentalità patriarcale e limiti dell'ordinamento giudiziario

di redazione 25/11/2021 CULTURA E SOCIETÀ
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Ogni giorno, in Italia, ci sono 89 donne vittime di violenza di genere e nel 2021 sono stati 109 i femminicidi, il 40% di tutti gli omicidi commessi. Di questi, 93 sono avvenuti in ambito familiare-affettivo e, in particolare, 63 per mano del partner o dell'ex partner. Questi i dati allarmanti diffusi in occasione del 25 novembre, Giornata mondiale contro la violenza sulle donne.

Secondo i numeri che emergono dal report sugli omicidi volontari aggiornato settimanalmente dal servizio analisi della Polizia Criminale, con un focus sulle vittime di genere femminile, pubblicato sul sito del Viminale, nel 62% dei casi si tratta di maltrattamenti in famiglia, commessi soprattutto da mariti e compagni (il 34% dei casi) oppure dagli ex (il 28% dei casi). Nel 72% dei casi di femminicidio l’autore è il marito o l’ex marito: in un caso su due è stata usata un’arma da taglio.

Dati che in percentuale mostrano un aumento consistente delle vittime di genere femminile (+8%) rispetto allo stesso periodo del 2020. In crescita anche tutti i delitti commessi in ambito familiare-affettivo che passano da 130 a 136 (+5%). Anche in questo caso è significativo l’aumento delle vittime donne (+7%), e tra queste quelle uccise per mano del partner o dell'ex partner (+7%).

Buona parte del rapporto sulle donne uccise in italia per «motivi di genere» si concentra sulle criticità nell’operato della polizia giudiziaria. I parlamentari denotano una frequente «sottovalutazione della violenza riferita o denunciata dalla donna». Fatto reso più grave se si considera che circa due donne su tre vivono nel silenzio le aggressioni che precedono il femminicidio. Nelle cittadine più piccole, i cui abitanti spesso si conoscono tra loro, spesso le donne sono state addirittura dissuase dalla denuncia. Le forze di polizia, in alcuni casi valutati dalla Commissione, hanno derubricato le violenze a semplice lite famigliare, limitandosi «a calmare gli animi». Peggio, in alcune situazioni di violenza correttamente accertata, «non si è registrato alcun seguito concreto». Sono state riscontrate persino «minimizzazioni dei gravi maltrattamenti denunciati dalle donne», circostanza che ha agevolato l’archiviazione di alcuni procedimenti in cui gli atti persecutori sono stati «ridimensionati a mere molestie telefoniche o i maltrattamenti in famiglia ricondotti a lesioni semplici».

Nel rapporto si cita un caso specifico in cui la denuncia di una donna – uccisa poi con 10 coltellate – è passata in secondo piano rispetto alla denuncia dell’ex partner per tradimenti della moglie, sebbene l’adulterio non costituisca reato ormai dal 1968. Per ultimo, sono stati rilevati casi in cui la polizia giudiziaria, pur avendo ricevuto richieste di aiuto da parte di donne vittime di violenza che, per paura, non volevano formalizzare una denuncia, non hanno provveduto a comunicare la notizia di reato alla procura. Fatto grave, considerando che in questi casi la comunicazione del reato è prevista per obbligo di legge. Lo stesso linguaggio utilizzato nelle sentenze o nelle archiviazioni, sottolinea la Commissione, evidenzia un’inesperienza della magistratura nel rispondere adeguatamente al fenomeno del femminicidio. Il documento parla di «pregiudizi giudiziari». Ad esempio? «le denunce delle donne vittime di violenza, specie se in fase di separazione, in alcuni casi non sono valutate come qualsiasi altra denuncia, ma subiscono una più approfondita valuta­ zione di credibilità, nel presupposto che le donne mentono o esagerano».

Di tutti i procedimenti analizzati dal rapporto nel biennio 2017-2018, il 37% è finito in archiviazione: 79 casi, di cui 58 si sono chiuso per la morte dell’autore del femminicidio. Per l’81,2% dei processi che riguardano l’omicidio di una donna in quanto tale, si è scelto di procedere con rito abbreviato. La Commissione, tuttavia, nota come «a fronte di un reato così grave, la somma delle sentenze definitive di ergastolo e di condanna a 30 anni è pari al 35,7%, più bassa della somma delle sentenze di pena inferiore ai 20 anni, il 40,8%». Rilevante anche il fatto che il giudice, nelle sentenze di primo grado, tenda a ridurre le pene richieste dal pm: per un 65,7% di richieste di condanna sopra i 30 anni di carcere, al primo grado di giudizio vengono emesse pene oltre i 30 anni solo nel 45,5% dei casi. Tra la richiesta del pm e la sentenza del giudice, la percentuale di ergastoli si dimezza quella sotto i 15 anni raddoppia. In quasi un terzo dei casi, il giudice ha concesso delle attenuanti al colpevole. Le motivazioni più frequenti? «La confessione, l’incensuratezza, la condotta processuale dell’imputato, la sua età o il suo pentimento».

Il documento, poi, si concentra sulle motivazioni che hanno portato all’uccsione di 197 donne nel biennio. Nella maggior parte dei casi, la rottura della relazione non è presente negli atti giudiziari, nemmeno come intenzione della vittima prima di essere assassinata. Nei fascicoli, in quattro coppie su 10 si ravvisano segnali di interruzione della relazione: in particolare, il 4,4% delle volte la coppia era di fatto separata, mentre il 9,7% dei femminicidi è avvenuto con una separazione in corso. Il 23,9% delle donne aveva espresso la volontà di separarsi. «Il femminicidio si conferma come un atto di volontà di dominio e di possesso dell’uomo sulla donna al di là della possibile volontà di indipendenza e di rottura dell’unione della donna stessa», rileva il rapporto della Commissione. In generale, il 57,4% è stato perpetrato dal partner – che in 88 casi su 113 coabitava con la vittima -, mentre il 12,7% delle donne è stata uccisa dall’ex partner.

È ricorrente nei femminicidi presi a esame dalla Commissione il suicidio dell’autore che possedeva di porto d’armi da fuoco, il 16,1% del totale. Nove volte su dieci, chi ha una pistola si è suicidato dopo aver commesso il crimine. «Si tratta di una percentuale piuttosto elevata, specie se si considera il totale degli autori che si sono suicidati, il 34,9%». Altro elemento rilevante del rapporto è la percentuale di uomini che hanno compiuto un omicidio e che, contemporaneamente, sono risultati dipendenti da alcool e psicofarmaci: più di un quarto del totale, il 27,1%. Tra le vittime, invece, le donne che avevano una dipendenza sono risultate essere soltanto l’8,6%. Passando alle modalità di uccisione, il lavoro della Commissione segnala come il 28% degli assassinii sia avvenuto con modalità efferate. Al primo posto, nel 32% di casi, la causa del decesso è stata l’accoltellamento. Segue l’uso di armi da fuoco, nel 28% dei femminicidi, e colpi di oggetti contundenti, nel 19%.

Un terzo degli autori di femminicidio aveva a suo carico precedenti penali o giudiziari. Il 32,3% di questa fetta analizzata, inoltre, era già stata sottoposta a misure cautelare. È evidente che qualcosa nella rieducazione del condannato – come prescritto dall’art. 27 della Costituzione – non va. Così come è triste rilevare che la percentuale di denunce arrivate dalle vittime di femmincidio è bassissima: 29 su 196, mentre il 63% ha vissuto le violenze pregresse all’uccisione senza parlarne con nessuno. Ma il dato che denota le maggiori criticità nel sistema giudiziario di tutela delle possibili vittime è che in 15 procedimenti per femminicidio alle donne coinvolte, nonostante le autorità avessero ricevuto notizia di minacce, lesioni, tentati strangolamenti, non è stato garantito un sistema di protezione. Una di loro aveva denunciato ben otto volte l’aggressore prima di essere uccisa.

 

Un’altra piaga dei femminicidi analizzati è che, in appena due anni, 169 figli sono rimasti orfani di madre, di cui 67 minorenni. Sono 55, poi, i figli in questione che non hanno nemmeno il padre. «Questo dato è di particolare rilevanza ai fini del supporto materiale e psicologico che deve essere garantito dallo Stato alle famiglie che si prendono cura dei figli», scrivono i parlamentari. Si tratta di individui più o meno giovani che, nel 46,7% dei casi, aveva assistito alle violenze precedenti al femminicidio, nel 30% dei casi ha visto il corpo della madre defunta e nel 17,2% dei casi era presente durante l’assassinio.

 

LA STORIA DEL 25 NOVEMBRE 

Nel 1981, nel primo incontro femminista latinoamericano e caraibico svoltosi a Bogotà, in Colombia, venne deciso di celebrare il 25 novembre come la Giornata internazionale della violenza contro le donne, in memoria delle sorelle Mirabal (Patria, Minerva e Maria Teresa), uccise per ordine del dittatore Rafael Leónidas Trujillo. Bloccate sulla strada da agenti del Servizio di informazione militare mentre si recavano a far visita ai loro mariti in prigione, le tre donne furono condotte in un luogo nascosto dove furono stuprate, torturate, massacrate a colpi di bastone e strangolate, per poi essere gettate in un precipizio, a bordo della loro auto, per simulare un incidente.

Nel 1999 la giornata è stata istituzionalizzata anche dall’Onu con la risoluzione 54/134 del 17 dicembre. Un ulteriore passo in avanti è stato fatto con il riconoscimento della violenza sulle donne come fenomeno sociale da combattere, grazie alla Dichiarazione di Vienna del 1993.

In molti paesi, come l'Italia, il colore esibito in questa giornata è il rosso e uno degli oggetti simbolo è rappresentato da scarpe rosse da donna, allineate nelle piazze o in luoghi pubblici, a rappresentare le vittime di violenza e femminicidio. L'idea è nata da un'installazione dell'artista messicana Elina Chauvet intitolata 'Zapatos Rojos' e realizzata nel 2009 in una piazza di Ciudad Juarez. L’installazione è apparsa per la prima volta davanti al consolato messicano di El Paso, in Texas, per ricordare l'omicidio della sorella per mano del marito e le centinaia di donne rapite, stuprate e uccise in questa città di frontiera nel nord del Messico, nodo del mercato della droga e degli esseri umani. L'installazione è stata replicata successivamente in moltissimi paesi del mondo, fra cui Argentina, Stati Uniti, Norvegia, Ecuador, Canada, Spagna e Italia. La campagna in Italia viene in particolar modo portata avanti dal Centri antiviolenza e dalle Associazioni di donne impegnate nell'ambito della Violenza contro le donne.


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