Maternal

Il sentimento materno sconvolge la vita di una novizia in un film esteticamente scarno e rigoroso che esplora il mondo femminile.

di EMILIANO BAGLIO 18/05/2021 ARTE E SPETTACOLO
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Maura Delpero, nata a Bolzano, proviene dal cinema documentario, ambito nel quale ha realizzato già quattro film.

Anche Maternal nasce da un’esperienza reale; la regista, infatti, per quattro anni ha insegnato cinema in un centro d’accoglienza per ragazze madri di Buenos Aires.

Proprio qui ha trovato le interpreti principali del suo primo lungometraggio di fiction; Agustina Malale (Luciana) e Denise Carrizo (Fatima).

Entrambe sono ospiti di un hogar, una casa famiglia per ragazze madri gestito da suore.
La prima è parecchio insofferente alle regole, escogita di tutto pur di uscire dal centro per incontrarsi con il nuovo fidanzato e vive la sua condizione come una prigionia.

Fatima, invece, si rende conto che l’hogar è l’unica possibilità che ha per offrire una vita migliore a suo figlio.

A sconvolgere l’esistenza di entrambe sarà l’arrivo di Suor Paola (Lidiya Liberman), una giovane novizia prossima a pronunciare i voti perpetui.

Lo sguardo da documentarista di Maura Delpero è evidente in tutta l’opera.

La regista, più che ai dialoghi, spesso poveri, si affida soprattutto ai volti, ai corpi e soprattutto alle espressioni delle sue protagoniste.

Questo è evidente soprattutto nel tratteggiare il profilo psicologico di Suor Paola, disegnato soprattutto attraverso gli sguardi tra questa e le due ragazze ed ancor di più per quelli delle sue consorelle.

Da questo punto è esemplare una sequenza in particolare in cui due suore, la direttrice del centro ed il suo braccio destro, la osservano dalla finestra mentre accompagna la figlia di Luciana.

Lo sguardo che si scambiano le due riesce a racchiudere mirabilmente sia da una parte la preoccupazione dell’una sia il sentimento, quasi materno, di amore e comprensione della Priora.

Sono i gesti ed i luoghi a caratterizzare lo scontro e le tematiche di fondo che affronta il film.

Maura Delpero sceglie una messa in scena essenziale, spogliata di ogni orpello, affidandosi il più delle volte e lunghe scene in cui la macchina da presa è rigidamente fissa.

Ciò le permette di studiare i personaggi della sua opera affidandosi all’introspezione psicologica attraverso le loro espressioni, i vestiti e l’interazione delle varie donne con l’ambiente circostante.

L’hogar, infatti, appare come un luogo remoto ed isolato dal resto del mondo nel quale è totalmente assente l’elemento maschile, fatta eccezione per il figlio di Fatima.

L’uomo è relegato al fuori campo, è una presenza che riaffiora sia attraverso i deboli accenni al passato di Fatima, il cui dramma è lasciato all’intuizione dello spettatore, sia nei segni sul volto di Luciana nell’ultima parte della vicenda.

Dentro questo luogo che è, al tempo stesso, sia un rifugio sia una prigione, si consuma uno scontro che vive di una tensione continua e palpabile.

Da una parte abbiamo i giovani corpi delle ragazze che esplodono di giovinezza, vitalità ed erotismo, anche volgare, soprattutto nella scena della festa.

Queste giovani madri portano l’esterno dentro la casa famiglia, attraverso ciò che fanno, che si tratti dei loro litigi e dei rapporti tra di esse, della depilazione fatta con strisce di scotch fatto rubare dai figli alle suore o del deodorante che Luciana mette sulle sue zone intime prima di incontrarsi con l’amato.

Dall’altra parte, in contrasto, il monocromatismo delle suore con la loro gerarchia, i loro riti ed il loro mondo di riferimento.

Gli stessi abiti assumono importanza nella narrazione.

È il caso del velo di Suor Paola; in una prima scena se lo toglie prima di andare a dormire davanti alla figlia di Luciana che le dice che è bella, riconquistando così una sua dimensione femminile che si esplicita proprio attraverso quei capelli sciolti che, normalmente, sono nascosti dal velo.

Nella seconda scena è proprio Luciana, in un impeto di rabbia e con un gesto di estrema violenza, a spogliare Suor Paola del velo, quasi a mettere in mostra il dramma interiore che vive la giovane novizia.

Suor Paola, infatti, durante il film, anche per motivi che non diremo per non svelare troppo della trama, si affeziona sempre di più alla figlia di Luciana.

Nonostante nella sua stanza abbia un ritratto religioso dove campeggia la scritta “Chi ha Dio nulla le manca”, proprio il rapporto con la bimba farà affiorare in lei sentimenti sconosciuti o forse repressi troppo a lungo.

Maternal diviene così un film che affronta al tempo stesso due temi importanti.

Innanzitutto Delpero si confronta con i dogmi del cristianesimo.

Indaga le ragioni che sono dietro alla scelta di divenire suore, le rinunce ed anche le conseguenze di tale scelta, che siano il sentimento di amore cristiano della Madre Badessa, il sonno pomeridiano che colpisce inesorabilmente un’anziana suora che ha il compito di fare lezione ai bimbi o l’apparente rigidità del braccio destro della priora, mostrato attraverso quei continui pugni su ogni tipo di superficie.

Al centro di questo mondo c’è il modello cristiano della famiglia, incarnato dalle figure di Giuseppe, Maria e Gesù.

Un modello che, inevitabilmente, si scontra con la situazione che vivono le ragazze madri.

Ecco che allora, quando Fatima partorisce la figlia che porta in grembo, l’altro figlio le dice “ora siamo una famiglia modello”, perché, finalmente, sono in tre.

La realtà messa in scena dalla regista mette in discussione proprio quel modello familiare, suggerendo che è l’affetto a creare la famiglia e che essa può esistere anche in altre forma.

Dall’altra parte, il grande discorso sul quale verte la pellicola, come suggerisce il titolo stesso, è proprio quello sull’essere madre, su cosa ciò significhi, sull’origine del sentimento materno e su come esso si espliciti.

In fondo anche la Madre Badessa è una madre, soprattutto per quanto riguarda Suor Paola alla quale, è evidente, guarda come a una figlia, come ad un’altra pecorella smarrita al pari di Luciana.

E sarà proprio la scoperta di tale sentimento a mettere in crisi la novizia.

Maura Delpero porta avanti il suo discorso scegliendo, come già detto, uno stile estetico volutamente spoglio ed essenziale che rischia però di vacillare nelle ultime scene.

Qui la regista, pur affidandosi ad un finale sostanzialmente aperto, sembra che non riesca più a gestire al meglio la materia, insomma, per dirla altrimenti, forse si poteva porre la parola fine un po’ prima, affidandosi ad immagini anche più potenti, rispetto invece ad un’ultima inquadratura che sembra segnare una cesura troppo netta e brusca.

Sono però piccoli difetti di un film che, a partire dai quattro premi vinti al Festival di Locarno del 2019, sino al Women in Motion Young Talent Award assegnato alla regista al Festival di Cannes nel 2020, ha giustamente raccolto lodi in giro per il mondo.

L’ennesima conferma di quanto sia vitale sia il cinema documentario sia quello femminile in Italia.

EMILIANO BAGLIO


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